13 aprile '16 visione post - 87
Village Vanguard:
così il jazz ha reso eterno
il club dei miti.
Da Louis Amstrong a Miles Davis
ospitò tutti i big del jazz
(da la Repubblica - 20/02/'15 - La storia /
Giuseppe Videtti)
E' un miracolo che il,Village Vanguard sia ancora aperto,
sopravvissuto ai mille club che hanno chiuso i battenti do-
po aver scritto il loro nome nell'albo d'oro del jazz, dal leg-
gendario Cotton Club di Harlem al prestigioso Birdland
di Brodway. Aprì i battenti ottant'anni fa, in un rigido inver-
no newyorkese, il 22 febbraio del 1935. Quanta neve quel-
l'anno al Grennwich Village. Max Gordon (1903 - 1989),
il proprietario, un immigrato polacco sbarcato a New York,
a 13 anni, appassionato del jazz di New Orleans, fanatico
di Louis Amstrong e Sidney Bechet, aprì il locale con l'in-
tento di ospitare reading di poesia e musica folk, un ge-
nere che avrebbe fatto la fortuna di tanti club del Green-
wich fino all'ascesa di Dylan. Fu la moglie Lorraine (ex
di Alfred Lion, il patron della prestigiosa etichetta Blue
Note), più in sintonia con le avanguardie musicali, a in-
vitare i primi artisti. Lo ha raccontato nell'autobiografia
Alive at the Village Vanguard: My life in and out of jazz
time (2006), resoconto vibrante della scena musicale
newyorkese dell'epoca pre e post be-bop. "Fui io a con-
vincere mio marito a scritturare Thelonious Monk", rac-
conta. "Era furioso dopo la prima esibizione, il locale
semivuoto. Gli dissi: 'Abbi pazienza, è un genio'. E lui:
'Non hai idea di come si gestisce un club, mi porterai
alla rovina'-" (è stata Lorraine, ora 92enne, a traghetta-
re con successo il Village Vanguard nel nuovo millen.
nio per la gioia di un pubblico sempre più cosmopolita).
Il pubblico, allora come oggi, faceva la fila allineato
sul marciapiede della Settima Avenue, davanti a quel-
la porticina e giù per la scaletta ripida verso l'angusto
e cavernoco scantinato - per chi la consederava la mu-
sica del diavolo era un antro spalancato sull'inferno,
per i melomani l'accesso al giardino delle delizie, per
i musicisti la valle dell'Eden celata sotto l'asfalto e il
cemento della metropoli. Gli artisti ci hanno messo
l'anima, il Greenwich Village la creatività e l'entu-
siasmo della controcultura. Manhattan la cornice -
d'inverno i fumi della metropolitana trasformano la
Settima imbiancata in una sorta di Stige; nelle notti
di maggio il vento trasporta il profumo dei peschi in
fiore dai giardini di Bleecker e Washington Square;
d'estate l'aria rovente di luglio intossicata dagli am-
bulanti di hot dog avvolge chi aspetta pazientemen-
te un biglietto rimasto per la performance di mezza-
notte, quella più affollata.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta il Vanguard
diventò una sorta di marchio di qualità. Non solo Nina
Simone tenne concerti memorabili, ma anche Barbra
Streisand già star di Funny Girl. Le case discografiche
(Impulse e Blue Note soprattutto) facevano a gara per
pubblicare le incisioni live nel locale di Max Gordon.
Tra gli altri: John Coltrane, Betty Carter, Cannonball
Adderley, Elvin Jones, Dizzy Gillespie, McCoy Tyner,
Charlie Byrd, fino a Michel Petrucciani e Brad Mehl-
dau. Le foto scattate in decenni diversi, alcune finite
sulle copertine di memorabili incisioni live (John Col-
trane at the Village Vanguard è un capolavoro), sono
la testimonianza di una sorta di monumento immuta-
bile nel tempo: stessa pensilina, stesso neon, stessi
murales scarabocchiati sui muri; negli anni succes-
sivi alla Grande Depressione e nel dopoguerra, in
quei fantastici anni 50 in cui divenne la casa di Miles
Davis, Horace Silver, Gerry Mulligan, Modern Jazz
Quartet, Jimmy Giuffre, Anita O'Day, e negli anni
frenetici del free jazz quando Coltrane, Max Roach
e Charles Mingus tiravano tardi con le interminabili
jam Session vivacemente sostenute dal pubblico.
Immutabile anche nell'era della rete e del digitale:
per celebrare la terza età del Village Vanguard il
pianista Jason Moran ha organizzato a partire da
domenica una settimana con esibizioni di artisti
come kenny Barron, Bill Frisell e il quartetto di
Charles Lloyd.
Lucianone
1. commenti di sport-musica-arte- cinema-TV-letteratura 2. commenti di libri con creazione di Mylist e Sezione CULTURA / Scrittori 3 Sezione MUSICA /JAZZ 4 Sezione FOTOGRAFIA 5 Sezione TEATRO 6 Sezione VIAGGI 7 Sezione PERSONALE
mercoledì 13 aprile 2016
giovedì 25 febbraio 2016
mercoledì 20 gennaio 2016
Sezione Fotografia - Richard AVEDON, fotoreporter di moda & costume
AVEDON: l'avanguardia in 85 scatti
Quando, un anno fa, Roma rese omaggio a uno
dei più grandi reporter di moda e di costume,
fonte d'ispirazione per ogni fotografo.
Richard Avedon
(da la Repubblica - 14 marzo '15 - La mostra /
Simone Marchetti) - visione post - 92
"Penso di aver ritratto centomila volti prima
di diventare un fotografo". Parole di Richard Avedon,
uno dei reporter di moda e costume più importanti del
secolo scorso. L'artista oggi viene celebrato nella mo-
stra Avedon: beyond beauty alla Galleria Gagosian di
Roma (fino all'11 aprile 2015). Ieri sera, a Villa Bona-
parte (sede dell'ambasciata di Francia presso la Santa
Sede), il marchio Dior insieme all'istituzione culturale
ha organizzato una cena per dare l'avvio definitivo a
una delle esposizioni più importanti per capire come
può e deve cambiare la fotografia di moda oggi.
E non è un caso se l'attenzione su questa mostra arri-
vò proprio al termine di un mese di passerelle: tutto il
settore, dai designer agli amministratori delegati, dal-
la stampa specializzata agli addetti ai lavori, si sta in-
terrogando su come gestire il proprio passato glorioso
e come affrontare le sfide spinose della rivoluzione me-
diatica. - Il titolo della mostra romana dà subito una
risposta all'interrogativo: "beyond", ovvero oltre.
Nato nel 1923 e scomparso nel 2004, Avedon fu innan-
zitutto un creativo contro e oltre le convenzioni. I suoi
scatti oggi possono sembrare classici, ma quando fu-
no realizzati apparvero come rivoluzionari. Avedon
iniziò da dilettante, come assistente nella Marina mi-
litare americana. Era un pò come un "instagrammer"
dell'epoca, e nella Seconda guerra mondiale ebbe il
compito di scattare foto identificative. Più tardi arri-
varono le grandi collaborazioni con Harper's Bazaar,
quella storica con Vogue e infine con The New Yorker.
Detestava porre limiti al suo lavoro, non tollerava chi
faceva differenza tra fotografia commerciale e artisti-
ca e trattava la moda come una componente vitale, un
soggetto più che un accessorio dei suoi ritratti. Sul set
provocava le modelle perchè la smettessero di atteg-
giarsi a statue o a manichini. Le voleva vive, curiose,
intelligenti. - Passò dalla bellezza aristocratica di Glo-
ria Vanderbilt nel '53 alla forza selvaggia di Tina Turner
nel 1971 senza fare una piega. Tutto era bello. Bastava
guardarlo dal verso giusto. - Questa sua mancanza di
snobismo, questa sua curiosità sono la componente
più profonda della mostra: gli 85 scatti, molti dei quali
mai visti in Italia, vanno quindi considerati come la
possibilità, anzi, la necessità di andare oltre ciò che si
sapeva e quindi ciò che si sa in fatto di immagine.
Il probema del fashion system e della fotografia di
moda contemporanei, infatti, è la nostalgia del pas-
sato: gli scatti di Avedon, al contrario, dimostrano
quanto l'avanguardia sia da sempre una condizione
necessaria. Non è un caso,quindi, che un colosso co-
me Dior abbia scelto di legarsi alla Fondazione Ri-
chard Avedon per una serie di progetti importanti
che verranno svelati nei prossimi mesi.
Dovima with elephants
Calendar Pirelli 1995
Model Linda Evangelista
For Vogue Germany, February 1994
Lucianone
Sezione personale - Raccolta poetica / 'Minime poesie'
"Minime poesie" - 1997/98/99 visione post - 43
di Luciano Finesso
Mi soffermo
ad attendere un'onda
nello spazio
ristretto della mente. (17 maggio '97)
Addio all'epoca
quando l'aratro
solcava i margini
di un remoto tempo. (17 maggio '97)
Sono ragno che vola
in turbine di vento
sono un'opaca struttura
che si sovrappone
a tutto ciò che è già stato.. (26 maggio '97)
Disse il padre al bimbo suo:
non darmi dispiaceri
non distogliermi da gioie
non farmi crollare
non deludermi per sempre! (luglio '97)
Un mondo sta andando
e altri mondi giungono
in questo tempo
di tecnologici cambiamenti. /22 gennaio '98)
Guerre sempre guerre
non è giusto
per chi resta
qui giovane a guardare. (luglio '99)
Riflessione di te
su uno specchio liscio
mentre fuori i figli cari
giocano come sanno
e il tempo vola. (luglio '99)
Vedo l'ombra della roccia
che sale piano
e tutta la luce
rimane qui a dormire
nell'aria di un respiro. (agosto '99)
Era stata una punizione
data dal padre mio
una sola volta
per tutte
a farmi cambiare
volto. (agosto '99)
"minime poesie" - 2014
Quando mi lasciate
libero?
Libero di agire da solo?
Solo come un cane sciolto?
Evviva democrazia!
Abbasso false democrazie!! 29 novembre (sabato)
Ho odorato la vita,
ho mangiato l'erba,
ho pregato per mia moglie
ma tutto si è risolto
nel nulla e per nulla.
Ciao, vita: ci risentiremo. 29 novembre
Le mie pene
sono le vostre pene,
i vostri difetti
sono i miei tanti difetti.
Ma vi saluto caramente! 29 novembre
Non valgo niente.
valgo niente,
non so se valgo:
gli altri dicono sì e no. 29 novembre
Grande Ernest,
grande vecchio
e immenso mare:
chissà perchè,
ricordo anche Lucio D... 30 novembre
Lucianone
martedì 19 gennaio 2016
VIAGGI / Libro - Con John Steinbeck in viaggio attraverso l'America
Il giornalista olandese Geert Mak
ha ripercorso 50 anni dopo
lo stesso itinerario che l'autore
di "Uomini e topi"
raccontò in un libro
John Steinbeck
visione post - 57
(da la Repubblica - 14/03/2015 - R2Cultura - Enrico Deaglio)
STEINBECK
Viaggio in America senza Furore
A riprova che non esiste letteratura americana senza
politica; e che non esiste politica senza narrazione; e
infine che tutto è in America un incessante viaggio di
moltitudini di persone, la cronaca ci da continui esem-
pi. Decisamente alto, quello di pochi giorni fa a Selma,
piccolo paese dell'Alabama, dove un Obama in cami-
cia, tra le sue figlie adolescenti e vecchietti in carroz-
zella, è tornato a marciare, calpestando l'asfalto di
un brutto ponte costruito nel 1940. Il ponte Edmund
Pettus (dal nome - mai cambiato - di uno dei fondato-
ri locali del Ku Klux Klan), dove 50 anni fa la polizia
dell'Alabama massacrò una piccola folla pacifica che
chiedeva per i neri il diritto al voto. Il presidente ha
invitato a non smettere di marciare ("Selma is now!")
e ha avuto parole ispirate sulla storia del proprio
paese: "Noi siamo gli schiavi che hanno costruito la
Casa Bianca, gli operai che hanno posto i binari e
scioperato per il loro diritti, i messicani che hanno
guadato il Rio Grande...".
Obama parlava da un luogo anonimo e tragico, ma
si sentiva a suo agio; e forse per questo trasmetteva
un'epica, una musica, l'odissea. Il viaggio di Obama
mi viene utile per introdurre un libro notevole e ori-
ginale. Si chiama In America, viaggio senza John,
scritto dal giornalista-storico olandese Geert Mak,
pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie per la tra-
duzione di Franco Paris. Il "John", di cui l'autore
sente la mancanza, è John Steinbeck, che nel 1960,
all'età di 58 anni si attrezzò un camper (cui diede
il nome di "Ronzinante", come il cavallo di Don
Chisciotte) e partì per un viaggio nel suo paese con
il barboncino nero Charley, che rispondeva al suo
padrone solo se questi gli parlava in francese.
Steinbeck guidò Ronzinante dall'est all'ovest e tornò
verso New York attraverso il Texas e il profondo sud
del paese. Era fornito di fucile, di una scorta di vive-
ri e liquori, di matite e di un taccuino e si lavava po-
co; si fermò in grandi città e centri sperduti, attac-
candottone con chiunque, andando a pescare con
chi incontrava nei bar. Ne uscì una road novel, In
viaggio con Charley, che, insieme a Pian della Tor-
tilla, Uomini e Topi, Furore, gli fece ottenere due
anni dopo, il Nobel.
Geert Mak, che per Steinbeck nutre una sorta di
venerazione, è un giornalista di Amsterdam bato
appena dopo la guerra, con una lunga carriera di
impegno progressista ed è l'autore del bestseller
In Europa, biografia del vecchio continente a par-
tire dalle macerie del 1945. Cinquant'anni dopo,
Mak si è rimesso in viaggio, senza camper e senza
cane, ma comunque calcando le stesse s-trade per-
corse da John, per dare conto di quel mondo e di
quello nuovo. In America, nel suo andirivieni tra
l'oggi e il passato prossimo, rinuncia all'originali-
tà narrativa, per scavare piuttosto nelle arti del re-
portage sociologico, fino a diventare un inaspetta-
to compagno di viaggio e insieme un bignami di
storia contemporanea. - Il piacere del libro sta nella
percezione del tempo che trasmette. La scena si svol-
ge in un anno, il 1960, e in un grande paese, allora
per buona parte sconosciuto ai suoi stessi abitanti.
A soli 15 anni dalla sanguinosa vittoria su Germania,
Italia e Giappone, l'America, da esperimento sociale
fascinoso ma incerto, è diventata un paese ricco, smo-
datamente consumista e allegramente imperialista,
John Steinbeck, che aveva cantato un altro mondo -
i contadini in fuga dall' Oklahoma alla California, i
braccianti messicani, i pescatori di sardine di Monte-
rey, gli impauriti soldati in Europa - ora osserva stu-
pito la nascita di nuove città dalle case prefabbricate -
i "suburbs" - le vendite a rate, la televisione, la pub-
blicità delle sigarette, la ricchezza diffusa, il cambia-
mento dell'alimentazione, "le sequoie che rendono
gli uomini nervosi". Un paese mon più isolato e so-
brio ma che prende l'aereo per una coa nuova chia-
mata week-end e confonde i lavoratori con i turisti.
L'autore torna stupito nella sua Monterey: "una
volta qui eravamo tutti poveri"; scopre che il popo-
lo è più difficile da trovare, sommerso da una scon-
finata middle class.
Il 1960 del viaggio di Steinbeck serve a Geert Mak
come un anno spartiacque della storia. Il vecchio
Nixon contro il giovane Kennedy (e dire che tra i
due c'erano solo 4 anni di differenz), la paura dei
conservatori: "saremo governati dal Papa di Ro-
ma?", la forza imprevista della televisione che ri-
definisce la democrazia, la scoperta delle oscure
grandi macchine elettorali. La modernità: solo
60 anni prima, annota Mak, l'America aveva eletto
presidente Theodore Roosevelt, che si vantava di
aver ucciso, nella guerra di Cuba uno spagnolo con
le mani nude, come un coniglio". Il 1960 è un anno
felice che precede di soli due anni la crisi atomica
di Cuba, di tre l'uccisione spettacolare del presi-
dente, di quattro la rivolta dei ghetti neri, di sei
l'epocale disastro del Vietnam,, di quattro la na-
scita del femminismo. Se gli appunti di Steinbeck
prendevano le misure del cambiamento del "ca-
rattere americano", Mak è efficace nel dare le
coordinate di una grande trasformazione sociale,
e della velocità con cui questa è avvenuta.
Nelle 600 pagine del libro, spiccan, per la forza
narrativa di allora e del presente, le descrizioni
di Chicago, di detroit e di New Orleans. Se la sua
amata San Francisco apparve a Steinbeck immo-
bile e fascinosa "come il dipinto di una città me-
dievale italiana". la capitale dell'Illinois gli fece
invece paura: la metropoli popolata dai neri, me
ta finale di una biblica emigrazione (per Mak,
Chicago è la spiegazione del fenomeno Obama);
Detroit, la capitale dell'automobile, del lavoro
meccanico, dell'acciaio e del socialismo america-
no, nel 1960 si presentava come "un luogo dalle
fiabesche dimensioni"; nel 2010 Mak camminò
in mezzo a "una favolosa rovina", un'astronave
abbandonata, preda di violenza, senza legge, do-
ve una casa intera si poteva comprare a mille
dollari eppure rimaneva invenduta. E infine New
Orleans, dove Steinbeck assistette a una violenta
manifestazione di donne bianche contro la pre-
senza di una bambina nera in una scuola elemen-
tare. (L'autore aveva appuntato, in una pagina
intera, tutti i più terribili insulti lanciati contro
quella bambina; l'editor tagliò tutto, perchè "troppo
orte"; l'autore scrollò le spalle: "fate pure, ma fate
male, perchè tagliate la verità"); è la stessa città do-
ve l'uragano Katrina nel 2005 dimostrò quanto raz-
zista fosse ancora l'America e quanto New Orleans
fosse vicina alla Selma del 1965 e di oggi.
Continua... to be continued...
ha ripercorso 50 anni dopo
lo stesso itinerario che l'autore
di "Uomini e topi"
raccontò in un libro
John Steinbeck
visione post - 57
(da la Repubblica - 14/03/2015 - R2Cultura - Enrico Deaglio)
STEINBECK
Viaggio in America senza Furore
A riprova che non esiste letteratura americana senza
politica; e che non esiste politica senza narrazione; e
infine che tutto è in America un incessante viaggio di
moltitudini di persone, la cronaca ci da continui esem-
pi. Decisamente alto, quello di pochi giorni fa a Selma,
piccolo paese dell'Alabama, dove un Obama in cami-
cia, tra le sue figlie adolescenti e vecchietti in carroz-
zella, è tornato a marciare, calpestando l'asfalto di
un brutto ponte costruito nel 1940. Il ponte Edmund
Pettus (dal nome - mai cambiato - di uno dei fondato-
ri locali del Ku Klux Klan), dove 50 anni fa la polizia
dell'Alabama massacrò una piccola folla pacifica che
chiedeva per i neri il diritto al voto. Il presidente ha
invitato a non smettere di marciare ("Selma is now!")
e ha avuto parole ispirate sulla storia del proprio
paese: "Noi siamo gli schiavi che hanno costruito la
Casa Bianca, gli operai che hanno posto i binari e
scioperato per il loro diritti, i messicani che hanno
guadato il Rio Grande...".
Obama parlava da un luogo anonimo e tragico, ma
si sentiva a suo agio; e forse per questo trasmetteva
un'epica, una musica, l'odissea. Il viaggio di Obama
mi viene utile per introdurre un libro notevole e ori-
ginale. Si chiama In America, viaggio senza John,
scritto dal giornalista-storico olandese Geert Mak,
pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie per la tra-
duzione di Franco Paris. Il "John", di cui l'autore
sente la mancanza, è John Steinbeck, che nel 1960,
all'età di 58 anni si attrezzò un camper (cui diede
il nome di "Ronzinante", come il cavallo di Don
Chisciotte) e partì per un viaggio nel suo paese con
il barboncino nero Charley, che rispondeva al suo
padrone solo se questi gli parlava in francese.
Steinbeck guidò Ronzinante dall'est all'ovest e tornò
verso New York attraverso il Texas e il profondo sud
del paese. Era fornito di fucile, di una scorta di vive-
ri e liquori, di matite e di un taccuino e si lavava po-
co; si fermò in grandi città e centri sperduti, attac-
candottone con chiunque, andando a pescare con
chi incontrava nei bar. Ne uscì una road novel, In
viaggio con Charley, che, insieme a Pian della Tor-
tilla, Uomini e Topi, Furore, gli fece ottenere due
anni dopo, il Nobel.
Geert Mak, che per Steinbeck nutre una sorta di
venerazione, è un giornalista di Amsterdam bato
appena dopo la guerra, con una lunga carriera di
impegno progressista ed è l'autore del bestseller
In Europa, biografia del vecchio continente a par-
tire dalle macerie del 1945. Cinquant'anni dopo,
Mak si è rimesso in viaggio, senza camper e senza
cane, ma comunque calcando le stesse s-trade per-
corse da John, per dare conto di quel mondo e di
quello nuovo. In America, nel suo andirivieni tra
l'oggi e il passato prossimo, rinuncia all'originali-
tà narrativa, per scavare piuttosto nelle arti del re-
portage sociologico, fino a diventare un inaspetta-
to compagno di viaggio e insieme un bignami di
storia contemporanea. - Il piacere del libro sta nella
percezione del tempo che trasmette. La scena si svol-
ge in un anno, il 1960, e in un grande paese, allora
per buona parte sconosciuto ai suoi stessi abitanti.
A soli 15 anni dalla sanguinosa vittoria su Germania,
Italia e Giappone, l'America, da esperimento sociale
fascinoso ma incerto, è diventata un paese ricco, smo-
datamente consumista e allegramente imperialista,
John Steinbeck, che aveva cantato un altro mondo -
i contadini in fuga dall' Oklahoma alla California, i
braccianti messicani, i pescatori di sardine di Monte-
rey, gli impauriti soldati in Europa - ora osserva stu-
pito la nascita di nuove città dalle case prefabbricate -
i "suburbs" - le vendite a rate, la televisione, la pub-
blicità delle sigarette, la ricchezza diffusa, il cambia-
mento dell'alimentazione, "le sequoie che rendono
gli uomini nervosi". Un paese mon più isolato e so-
brio ma che prende l'aereo per una coa nuova chia-
mata week-end e confonde i lavoratori con i turisti.
L'autore torna stupito nella sua Monterey: "una
volta qui eravamo tutti poveri"; scopre che il popo-
lo è più difficile da trovare, sommerso da una scon-
finata middle class.
Il 1960 del viaggio di Steinbeck serve a Geert Mak
come un anno spartiacque della storia. Il vecchio
Nixon contro il giovane Kennedy (e dire che tra i
due c'erano solo 4 anni di differenz), la paura dei
conservatori: "saremo governati dal Papa di Ro-
ma?", la forza imprevista della televisione che ri-
definisce la democrazia, la scoperta delle oscure
grandi macchine elettorali. La modernità: solo
60 anni prima, annota Mak, l'America aveva eletto
presidente Theodore Roosevelt, che si vantava di
aver ucciso, nella guerra di Cuba uno spagnolo con
le mani nude, come un coniglio". Il 1960 è un anno
felice che precede di soli due anni la crisi atomica
di Cuba, di tre l'uccisione spettacolare del presi-
dente, di quattro la rivolta dei ghetti neri, di sei
l'epocale disastro del Vietnam,, di quattro la na-
scita del femminismo. Se gli appunti di Steinbeck
prendevano le misure del cambiamento del "ca-
rattere americano", Mak è efficace nel dare le
coordinate di una grande trasformazione sociale,
e della velocità con cui questa è avvenuta.
Nelle 600 pagine del libro, spiccan, per la forza
narrativa di allora e del presente, le descrizioni
di Chicago, di detroit e di New Orleans. Se la sua
amata San Francisco apparve a Steinbeck immo-
bile e fascinosa "come il dipinto di una città me-
dievale italiana". la capitale dell'Illinois gli fece
invece paura: la metropoli popolata dai neri, me
ta finale di una biblica emigrazione (per Mak,
Chicago è la spiegazione del fenomeno Obama);
Detroit, la capitale dell'automobile, del lavoro
meccanico, dell'acciaio e del socialismo america-
no, nel 1960 si presentava come "un luogo dalle
fiabesche dimensioni"; nel 2010 Mak camminò
in mezzo a "una favolosa rovina", un'astronave
abbandonata, preda di violenza, senza legge, do-
ve una casa intera si poteva comprare a mille
dollari eppure rimaneva invenduta. E infine New
Orleans, dove Steinbeck assistette a una violenta
manifestazione di donne bianche contro la pre-
senza di una bambina nera in una scuola elemen-
tare. (L'autore aveva appuntato, in una pagina
intera, tutti i più terribili insulti lanciati contro
quella bambina; l'editor tagliò tutto, perchè "troppo
orte"; l'autore scrollò le spalle: "fate pure, ma fate
male, perchè tagliate la verità"); è la stessa città do-
ve l'uragano Katrina nel 2005 dimostrò quanto raz-
zista fosse ancora l'America e quanto New Orleans
fosse vicina alla Selma del 1965 e di oggi.
Continua... to be continued...
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