venerdì 10 maggio 2013

VIAGGI - Walter Bonatti a Capo Horn

Il Mito Walter Bonatti -
Dopo essersi ritirato, nel 1955, dall'attività
di scalatore, cominciò a viaggiare in terre
remote.                                                       visioni post - 111
Il viaggio - 43 anni fa W. Bonatti si imbarcò sulla
torpediniera 'Fuentealba' e salpò da Punta Arenas.

Walter Bonatti
nel 1954

(da 'Corriere della Sera' - 7 aprile 2013 - di Franco Brevini)
A Capo Horn sulle tracce
di Walter Bonatti
"Paesaggio apocalittico, senza orizzonte"
La fine del mondo, il punto più meridionale  del-
l'America, una leggenda nella storia dell'esplora-
zione, un mito per ogni velista: Capo Horn è tutto
questo e altro ancora. I pensieri si affollano, men-
tre  il solito  vento patagonico cerca di buttarmi a
terra non appena emergo sull'altopiano dell'isola.
In basso, nella piccola cala, lo "zodiac" che mi ha
portato a terra dopo una danza infernale sulle onde.
In rada all'ancora la nave delle "Cruceros Austra-
lis", che una volta alla settimana  permette anche
alla gente comune di raggiungere il selvaggio Capo
posto a oltre 55 gradi di latitudine sud, davanti allo 
stretto di Drake: l'ultimo ricordo di terre quasi nor-
mali prima dell'assurdità glaciale dell'Antartide.
Mentre salgo verso il monumento di ferro che raffi-
gura un albatrio e che ricorda  tutti i navigatori che 
hanno doppiato  il mitico  Cabo de Hornos, come lo
chiamano i cileni a cui appartiene, ripenso che qua-
rantatrè anni fa calpestava questa stessa erba gial-
la e tagliente il più famoso alpinista ed esploratore
bergamasco: WALTER BONATTI.
Dopo il ritiro dall'attività di scalatore, nel 1965, Bo-
natti aveva cominciato a viaggiare in terre remote
quale avventuroso inviato di "Epoca". I suoi servi-
zi, corredati dalle primesbalorditive immagini della
wilderness che giungessero agli italiani, hanno fat-
to sognare più di una generazione. Io stesso credo
diu avere maturato  la  mia  passione  per i grandi
spazi del mondo  su quelle pagine patinate, corre-
date di fotografie che oggi possono farci sorridere,
ma che allora erano ambasciatrici di favolose lon-
tananze per l'Italia del boom economico.
"Mi è venuta l'idea di raggiungere Capo Horn, il
più remoto e leggendario scoglio della storia ma-
rinara, dopo aver letto  un certo numero  di libri
che parlano di allucinanti naufragi accaduti a de-
cine di bastimenti trascinati dall'uragano".
Così inizia su "Avventura" (Rizzoli, 1984) il racconto
di Bonatti. Allora il turismo non aveva ancora toccato
Capo Horn e l'alpinista bergamasco dovette rivolger-
si  nientemeno  che  all'ammiraglio  Guillermo Barro 
Gonzales, comandante  della Terza Zona Navale Ci-
lena, di Punta Arenas, da cui anch'io sono salpato 4
giorni fa. Trasportato a Puerto Williams, Bonatti si
imbarca  sulla  torpediniera Fuentealba, che lo  tra-
sporterà al Capo.
Anche questa mattina un vento radente scolpiva la
superficie del mare di onde taglienti. L'acqua ribol-
liva  di  creste schiumose  e  la  "Stella Australis",
che pure è stata progettata dai cileni per questi sel-
vaggi mari, beccheggiava  in modo  assai marcato.
Bonatti dipinge in modo  particolarmente  epico la
sua traversata, che si conclude con la fiera appari-
zione del Capo:  "E finalmente, il Capo Horn: che
si eleva nella bruma del controluce come un mostro
fosco e solitario. Il profilo dentellato della sua cima
più alta fa pensare al tridente di Nettuno, minaccio-
samente puntato verso le ignote solitudini dell'ocea-
no". In effetti il luogo ha un aspetto inquietante an-
che in questa giornata ventosa di fine marzo, in cui
tra le solite nubi bluastre della Patagonia si incide
qualche squarcio di azzurro. La violenza dei venti,
lo scontro delle onde dell'Atlantico e del Pacifico,
la desolazione di queste isole aride e rocciose in
cui esplode l'estremo lembo del continente ameri-
cano, sembrano fatti apposta per evocare le trage-
die che si consumano in queste acque grigie e pe-
rennemente agitate.     Anche per i velisti di oggi
Capo Horn rappresenta una sorta di Everest.

Bonatti viene lasciato a terra. Una nave passerà
a riprenderlo tra qualche giorno. Gli tocca subito
fare i conti con una tempesta, che manda in bran-
delli la sua tenda.  "Comincia a piovere, all'alba
è l'uragano. Il mare urla e ribolle con infinite cre-
ste spumeggianti. Raffiche di grandine lacerano
in breve il telone, posto ad ulteriore protezione
della tenda, e lo riducono a brandelli, che schioc-
cano come fruste ad ogni ondata di tempesta.
Devo fuggire per evitare il peggio, crcare asso-
lutamente una protezione naturale".

Lucianone

martedì 7 maggio 2013

Musica - Gli inossidabili PINK FLOYD

"Animals", decimo album del
gruppo inglese: invettiva anti-capitalista
                                    ideata da Roger Waters
 Pink Floyd


In "Animals" cani contro maiali e Orwell diventa rock
Il primo riferimento di Animals dei Pink Floyd, datato 1977,
è ovviamente a "La fattoria degli animali"  di George Orwell,
ma con un mutamento sostanziale del concetto base che
ispira l'opera letteraria. -  Se Orwell nella sua allegoria se
la prendeva soprattutto  con lo stalinismo, e comunque in
generale con i meccanismi sociali che producono dittature,
Roger Waters  adegua  la visione  al suo personale credo,
che era sostanzialmente anti-capitalista. La critica alla so-
cietà inglese è feroce, e frequenti sono  i riferimenti diretti
alla situazione del tempo, ma ovviamente stiamo parlando
dei Pink Floyd e il disco, nel suo languido e onirico flusso
sonoro, più che un manifesto politico, a parte certe punte
di inacidita asprezza, appare come un viaggio nella natura,
con versi di animali sparsi per tutto l'album, evocazioni bu-
coliche acustiche che al momento della sua uscita sembra-
rono una decisa presa di posizione controcorrente, soprat-
tutto in relazione  alla rivoluzione punk  che stava appena
esplodendo (ed è nota la maglietta che indossava Johnny
Rotten con la scritta "Hate Pink Floyd).
Animals fu comunque un disco controverso, splendido e
misterioso, che rimarcava la sempre più netta leadership
di Roger Waters, ormai saldamente  al  comando  delle
operazioni della band, a cominciare dalla celebre coper-
tina, disegnata come al solito dallo  studio Hipgnosis di
Storm Thorgerson ma ideata dallo stesso Waters. L'idea
era quella di ritrarre la famosa ex centrale elettrica londi-
nese, la Battersea Power Station, che  coi  suoi quattro
fumaioli può  sembrare  un animale rovesciato, e sopra
far levitare in modo speculare un pallone a forma di ma-
iale (che aveva anche un nome, Algie).

La formazione storica del gruppo. Da in alto a sinistra
in senso orario: Roger Waters, David Gilmour, Richard
Wright e Nick Mason

In Animals la session fotografica ha creato uno degli episodi
più noti e divertenti dell'aneddotica pinkfloydiana. Il pallone
(a forma di maiale) infatti si staccò dagli ormeggi e comin-
ciò a levarsi in volo. Fu diramato un comunicato agli aerei
in arrivo nel cielo di Londra. avvertendoli  che avrebbero
potuto incrociare un grosso maiale, che fu poi recuperato
indenne in una campagna nei dintorni della città.
I maiali, nel disco, sono gli arrampicatori sociali, gli arrivi-
sti senza scrupoli, i cani sono i governanti, e le pecore rap-
presentano il popolo che alla fine si ribella alla sopraffazio-
ne. Con un suggello personale di Waters, che con voce e
chitarra acustica (Pigs on the wing 1 e 2) apre e chiude
quello che è stato in ordine di tempo, il terzo album concept
dei Pink Floyd.
(da la Repubblica - 8 aprile 2013 - Gino Castaldo)

dei Pink Floyd formato da 2 dischi
Uno col repertorio live della band e l'altro con
inediti che mettono in evidenza le singole personalità

Quei suoni che ci trasportano nel futuro
Il titolo è diventato un "brand", un marchio, Ummagumma:
in sè non ha senso, nè la band né ha mai spiegato uno,
ma per una intera generazione, nel pieno del 1969 (era
Woodstock) all'indomani delo sbarco sulla luna, quella
parola acquista un significato magico, alternativo, e
profondo, l'indicazione di un "altrove", di un mondo
nuovo, diverso da tutto.  E' così anche la musica dei
Pink Floyd, lontana e diversa, misteriosa  e  affasci-
nante e 'Ummagumma' è l'incancellabile egno della
loro alterità.    Anche la copertina, con il suo gioco
di specchi al contrario, sembra dire "aprite gli occhi,
la mente: la realtà è diversa".
'Ummagumma' è un album doppio, composto da due
dischi diversi, uno dal vivo e uno in studio; il primo
realizzato con brani che già facevano parte del re-
pertorio dei Floyd in concerto, il secondo inedito.
Ma le due metà si completano perchè ci racconta-
no come la band sta cambiando.
Dal vivo la formazione è nel pieno el viaggio astrale
di Astronomy Domine e Set the controls for the heart of
the sun, nella sorprendente energia  di  Careful with that
axe, Eugene, o nella scoperta dell'invisibile di A saucerful
of secrets, una band compatta e creativa, che lascia spa-
zio ad una straordinaria interazione tra Mason, Gilmour
Waters e Wright.

La parte in studio, invece, mette in evidenza le singole
personalità. Ecco quindi Sysyphus di Rick Wright, divi-
sa in 4 parti, complessa e ricca, in bilico tra classico e
avanguardia. Nick Mason propone The grand vizier's 
garden party, viaggio estremo e fantastico tra ritmi e
rumori. Gilmour mantiene dritta la barra  dei Floyd,
con The narrow way, dodici minuti psichedelici, come
si caratterizzerà il suono dei lavori seguenti, mentre
Roger Waters continua la sua personale rivoluzione
musicale, sia con la bellissima Grantchester Meadows,
acustica e sognante, sia con la sperimentale Several
species of small furry animals gathered together,
titolo adatto a illustrare la sua volontà di esplorare
il mondo dei suoni in maniera sorprendente.
'Ummagumma' è un gioiello, splendente e misterioso,
che fotografa la band nel pieno  del passaggio dalla
prima fase sperimentale, legata alle origini con Barrett,
e la nuova realtà, verso la quale ognuno dei quattro
componenti, a suo modo, si indirizza.
Un disco difficile nella sua parte nuova, nella quale 
vengono racchiuse le sorprese più belle, e allo stes-
so tempio  un "greatest hits" dal vivo; un album che 
porta il mito dei Floyd ai massimi vertici dell'era psi-
chedelica che volgeva verso il tramonto.  Tramonto
che i Floyd vedono al punto da intraprendere nuove
strade e chiudere, alla loro maniera, gli anni Sessanta.

Lucianone

Fotografia - ELLIOTT ERWITT



visione post  -  359
Retrospettiva  dedicata ad Elliott Erwitt:    
    dal 17 aprile al primo settembre 1913,
a Torino, nella Corte Medievale di palazzo Madama.
E' organizzata da Silvana Editoriale e Magnum Photos
e nasce in collaborazione con il Comune di Torino e la
Fondazione Torino Musei.

(da 'La Stampa' - 17/04/2013 - di Rocco Moliterni / Torino)
Sul letto di una stanza dai muri scrostati un gatto sembra osservare
una donna e un bebè che dormono, quasi testa a testa,
nella penombra:
è una foto che Elliott Erwitt fece 60 anni fa a New York.
Fu esposta nella famosa mostra "The Family of man", inventata
da Edward  Steichen, direttore all'epoca del dipartimento di
fotografia  del Moma, e alla fine degli Anni 50 approdò anche
a Palazzo Madama di Torino: "Potevamo lasciarla qui", ha
commentato (ieri) il grande fotografo, inaugurando
l'esposizione targata  Magnum e Silvana Editoriale che propone
nella corte medievale dello stesso palazzo  186 fra i suoi
scatti più famosi  in bianco e nero.
JAPAN

Nato a Parigi da una famiglia ebraica (all'anagrafe fa Elio
Romano Erwitz), Erwitt visse l'infanzia in Italia e nel '38
si rifugiò con i suoi in America per sfuggire alle leggi
razziali. Iniziò a masticare fotografia a Los Angeles
e poi a New York, dove nel '48 conobbe big del-
l'immagine come Robert Capa e Edward Steichen.
Ma anche Roy Stryker, direttore della Farm Security
Administration, mitica istituzione mamma di tutto
il documentarismo sociale a stelle e strisce, che
l'assume per un progetto della Standard Oil.
Negli Anni 50 il salto alla Magnum (di cui sarà
anche presidente) che gli consentirà una vita
da globetrotter con la macchina fotografica
prima di cimentarsi pure con il cinema.
Quella con la donna e il bebè non è una foto
qualsiasi: a essere ritrattii sono la moglie e
il figlio di Erwitt, e viene in mente che lui
si senta il gatto. D'altronde un che di gattoso
sembra averlo ancora oggi, mentre risponde
sornione alle domande dei giornalisti.
    USA  1953,  NEW York City

Come  ha fatto  a  trovarsi  sempre  al posto giusto  al
momento giusto? ". A volte  mi è capitato, ma voi non 
non vedete tutte quelle in cui ho fallito, anche perchè 
cerco di non esibirle". Perchè i suoi soggetti sono so- 
vente bambini e cani?  "Perchè avevo tanti bambini 
e tanti cani".  E un pò di tempo fa spiegò che i cani
hanno il vantaggio rispetto agli uomini di non chie-
derti la stampa delle foto che gli fai.
Proprio ai cani è dedicata la prima parte della mostra.
Anche se si capisce che ad attirare la curiosità di Erwitt
non sono tanto gli animali quanto e soprattutto  il loro
rapporto con gli uomini. Già in queste prime immagini
emerge la caratteristica  di fondo delle foto di Erwitt:
lo sguardo ironico.   "Ma io - si schermisce lui -  non
cerco l'ironia, fotografo solo quello che vedo".
USA 2000,  New York City


        France 1989,  Paris

Peccato che altri fotografi non sappiano cogliere
come lui le "assonanze" tra un gruppo di oche e
uno di ragazze  che  camminano in Ungheria, o
la similitudine tra un pellicano e un rubinetto.
O immortalare la bambina che si mette in piedi
al Metropolitan accanto alle statue egizie.
Questo sguardo capace di cogliere l'ironia delle
situazioni a volte si sofferma  anche negli spazi
angusti di una camera d'hotel (è un'altra delle
sue serie famose), dove Erwitt si diverte a sotto-
lineare  i ghirigori  di  una tappezzeria riflessa
in uno specchio quasi fosse un quadro di Gnoli.
O spazia nelle città come Berlino, dove riesce a
mettere la luna  in equilibrio  su una statua, o
in Messico  dove  un'antenna televisiva  gioca
con l'aureola di un santo.
La vita urbana  l'affascina  in tutti  i suoi  aspetti,
ferma attimi  e  situazioni  a New York (la turista
davanti al grattacielo avvolta  nella nebbia) come 
a New Orleans (splendidi i bambini in marcia con 
gli strumenti musicali  in una jam session all'aper-
to), a Parigi (i ragazzi con le maschere di Stanlio e
Ollio) come a Hoboken nel New Jersey (i panni ste-
si quasi fossimo a Napoli).
     Spain  1952, Valencia


USA, New York, Jackie Geason  1944 / Actor - Astonishment - Eye - Face

Come molti dei fotografi della Magnum, Erwitt
si è anche cimentato  con i grandi della storia e
dello spettacolo: abbiamo in mostra Krusciov e
Nixon nel 1959  e  una delle foto  più belle mai
fatte a Castro: non puoi, a vederlo in quel grup-
po  di rivoluzionari, non pensare  a  un  Cristo
d'un quadro caravaggesco. 
Ci sono Jacqueline e Robert Kennedy al funerale
di John, nel 1963. Non manca la famosa foto sul
set del film "maledetto" Misfits (Gli spostati), del 
1961. Ritrae Marilyn Monroe e l'intera troupe, da
Montgomery Clift a Clark Gable, che moriranno
uno  dopo l'altro, secondo  una leggenda, perchè
il film fu girato nel Nevada non distante dal luo-
go dove durante la guerra si facevano gli esperi-
menti nucleari per le bombe di Hiroshima.
            Usa 1968,  Florida Keys

USA 1963,  Arlington,Virginia, Jacqueline Kennedy
  at John F. Kennedy's funeral

   CUBA  1964,  Havana  Che GUEVARA

Che differenza c'è tra fotografare persone famose e
semplici passanti? "Nessuna - dice Erwitt - ,  solo
che le persone famose la gente le riconosce". E di
Marilyn Monroe: "Non c'è niente che sia più d'aiu-
to a una carriera che morire giovani". Perchè pre-
ferisce il bianco e nero? "Non lo preferisco: tanto
che il mio prossimo libro sarà di foto a colori".

Lucianone