mercoledì 11 marzo 2015

MUSICA - Intervista / Le confessioni di Joni Mitchell


La cantante canadese, che a 71 anni lavora
alla riedizione dei suoi dischi, dice:   "Sono meglio
di Dylan & Co. ma da donna mi snobbano"
VISIONI POST -  84

(da la Repubblica / R2Spettacoli - 30/01/2015  - di  
Giuseppe Videtti - Roma)
Più originale di Dylan, nella musica e nel pensiero
"L'ho detto e lo ribadisco", esclama Joni Mitchell, il
tono perentorio che non ammette repliche   Un colpo 
di tosse  un'imprecazione  contro il vizio del fumo  al
quale ancora , a 71 anni, non intende rinunciare, poi
riprende: "Ma  sono  una donna, alle  donne  quello
status non è concesso, neanche nell'arte".
David Crosby  -  vecchio compagno di avventure quan-
do la musica della West Coast  era  la colonna sonora 
del libero pensiero  e  lei  flirtava  con  Graham Nash, 
James Taylor e Leonad Cohen  -  le ha dato ragione:
"Come musicista Joni è una spanna sopra Bob". Pa-
tole che Joni avrebbe voluto ascoltare quarant'anni
fa, non ora che vive  in uno stato  di aemireclusione
nella spanish house di Laurel Canyon, il suo rifugio
dal 1974.   Ha tagliato i ponti con il music business,
risponde al tejefono quando le va, se le va. Per due
generazioni di artisti - da Prince a Bjork - è un idolo;
album come Blue, Court and spark, Hejira e Mingus
pagine di un vangelo . ma a lei del pop restano solo
le cicatrici. Non ne ha voluto sapere di concedere i
diritti per un biopic interpretato da Taylor Swift,  e
se  si è fatta fotografare   da Hedi Slimane  per  la 
campagna pubblicitaria di Saint Laurent Paris è so-
lo "perchè mi ha promesso di lasciare tutte le rughe
al loro posto".Di diavolerie tipo photoshop non s'in-
tende.  "Evito persino  di guardare  i telegiornali", 
dice severa la cantautrice canadese. "Alla mia età
cerco di semplificarmi la vita, basta avvocati, basta
manager. Porto avanti un piccolo progetto: restau-
rare la mia musica. Per evitare  di essere  truffata
per l'ennesima volta".
Dopo sette anni di assenza, ha selezionato 53 delle
sue vecchie canzoni per un cofanetto  di quattro cd
appena pubblicato, Love has many faces.
"Era tempo d'incominciare a riflettere sul passato", 
spiega. "Non ho più alcun desiderio di fare musica,
solo di restaurare quelle incisioni deteriorate per in-
curia. Ormai il consumo della musica è frammentario
e occasionale. La gente ascolta dall'iPhone, che è un
pò come guardare  Lawrence d'Arabia  sul cellulare.
Volevo fosse  un oggetto bello  da avere tra le mani, 
come i microsolchi di una volta.   Volevo ricreare la
magia di quando usciva l'LP che tanto aspettavi. di-
mostrare a questa generazione di quanto  quella ce-
rimonia fosse intima e suggestiva".
-  Dunque il male di cui soffre la musica è incurabile?
"La musica è morta per svariate ragioni, ma soprat-
tutto per l'ingordigia  dell'industria. in mano a mana-
ger spregiudicati che l'hanno gestita in maniera, direi,
pornografica.  Inscatolata come  un qualsiasi bene di 
consumo, la melodia  è diventata agonizzante già da
quando  si è cominciato a parlare di corporate music.
 Gli scippi di Internet sono diventati il colpo di grazia".
-  Riascoltare le vecchie canzoni è stato emozionante?"
"No, affatto. Ho affrontato tutto con molta oggettività, 
come se non fosse frutto del mio ingegno. La cosa che
più mi ha emotivamente coinvolto  è stata  la stesura 
dei testi del libretto. Mi descrivevano come una folk-
singer  nei primi cinque album, ma non lo ero affatto.
Lo sono stata fino al 1965, prima del debutto discogra-
fico. Quando ho cominciato  a scrivere  la mia musica 
mi sono mossa   come  Schubert,   avevo  in mente  i 
Lieder non Woody Guthrie"

-  Non le è mai venuta voglia, in tutti questi anni, di 
produrre nuova musica?
"No. Sono malata dal 2009, e quando le energie
non sono al massimo non hai il desiderio di crea-
re. Riesco  solo  a dipingere , pur se non  con la
frequenza di un tempo.    Ma anche prima della
malattia, delusa e frustrata dalla corruzione del 
music business, avevo rallentato. Sono state le
scelte sciagurate dell'industria a uccidere il mio
interesse. La stessa cosa accadde a Miles Davis:
sparì  dalla circolazione  per sei anni  disgustato 
daòòe ingiustizie della discografia".
-  Che aspettative aveva da ragazza, quando dal
Canada scese verso la California in pieno flower 
power?
"Nessuna, la musica era un hobby. Da studentessa, 
alla scuola d'arte, suonavo nei caffè per un film, una 
pizza o una partita a bowling. Mi piaceva soprattutto
dipingere. Poi rimasi incinta (la bimba fu data in ado-
zione, si sarebbero  riabbracciate  32 anni dopo, nel
1997, ndr.). La musica fu il pretesto per allontanarmi
da casa e evitare il confronto coi miei. Sposai il folk-
singer Chuck Mitchell (al secolo è ancora Roberta
Joan Anderson, ndr.) e cominciai a collaborare con
lui, esperienza  di cui  vado tutt'altro  che fiera, ma
almeno appresi alcune regole fondamentali, la prima
che chi scrive canzoni deve avere una casa di edizio-
ni musicali. Sono entrata a far parte di questo mondo
in maniera riluttante, per niente allettata  dalla cele-
brità. La prima a scoprire il mio talento fui io, e scri-
vere canzoni diventò l'unica dipendenza della mia vi-
ta ( fumo a parte). Firmai un contratto discografico
per quattro soldi, un vero  e  proprio furto ai danni
della mia ingenuità. Ma non importava, ero droga-
ta dalla scrittura e dalla composizione, un bisogno
insopprimibile - i furbi l'avevano intuito".



La California l'accolse a braccia aperte, eppure
lei ha sempre fatto intendere di essersi sentita
sottovalutata rispetto ai colleghi maschi
"Non è mania di persecuzione, è la verità. La 
stampa mi relegava nei soliti articoli cumulati-
vi intitolati"Women in rock". Avrei voluto che 
fossen come a Parigi negli anni Venti, quando
gli artisti  trascorrevano ore  a discutere, ma
che vuole, con le donne è sempre andata così,
quelle forti e di talento fanno sentire gli uomi-
ni a disagio. Non fu una donna, Mary Cassat,
l'inventrice dell'impressionismo? Eppure guar-
di come è andata la Storia. Pur essendo amica 
di Dégas, non entrò mai  a far parte  dell'élite
perchè i suoi dipinti, che ritraevano la vita so-
ciale delle donne, erano considerati ridicoli".




Continua... to be continued...

martedì 10 marzo 2015

VIAGGI - A spasso per le Ande


SE  ERACLITO          VISIONE POST -  42
SE NE ANDASSE 
 a spasso PER LE ANDE
Perchè una valle cilena fa pensare 
al filosofo antico e al riscaldamento globale

(da la Repubblica - 20/04/'15  -  di Ariel Dorfman), 
Recentemente ho avuto modo di confermare, con
prova triste  e  inoppugnabile, che Eraclito  aveva
ragione quando scriveva che è impossibile bagnar-
si due volte nello stesso fiume. Non credo natural-
mente che il filosofo presocratico, quando scrisse
questa frase sul flusso implacabile del tempo, due-
milacinquecento anni fa, avesse in mente la distru-
zione ecologica del pianeta, l'abisso  verso  cui  ci
stanno portando l'avidità e l'incapacità di affronta-
re con coraggio la sfida del riscaldamento globale.
Mi è capitato di pensare a Eraclito di recente, nel
pieno della calura dell'estate cilena.   Fra le tante 
bellezze naturali che si possono trovare intorno a
Santiago, sono sempre stato particolarmente at-
tratto dal Cajòn del Maipo, una stretta vallata con
gole spettacolari scavate dal fiume Maipo nell'ar-
co di milioni di anni. - Uno dei posti più straordinari
di questo canyon è una cascata  chiamata  Cascada
de las Animas. L'hanno battezzata così più di un se-
colo fa gli arrieros, i mulattieri che dopo aver attra-
versato le montagne con il loro bestiame si ferma-
vano qui per bere e ritemprarsi dalla fatica, e so-
stenevano di aver intravisto due fanciulle semitra-
sparenti danzare dietro il getto d'acqua, e intorno
tanti duendes (folletti dispettosi) che saltellavano
e schiamazzavano.
Pià di 40 anni fa, quand'eravamo giovani, io e Ange-
lica, mia moglie, partivamo per farci delle cammina-
te fino alle pendici pià basse delle Ande, e in un'oc-
casione riuscimmo ad arrampicarci per centinaia di
metri fino alla cascata. Non vedendo in giro nessun 
essere umano, nè tantomeno le fanciulle o i folletti
della leggenda, decisi seduta stante di rinfrescare
il corpo tuffandomi in quelle acque  gelide e cristal-
line portate a valle dalle nevi montane.   Angelica,
che è sempre stata più prudente, si limitò ad assa-
porare l'acqua prendendola con le mani.
Alcuni giorni fa siamo ritornati  nel Cajon del Maipo,
e io, preso dalla nostalgia, ho deciso di rifare la cam-
minata fino a quella cascata magica. Angelica ha da-
to forfait., ma mi ha accompagnato mio cognato, Pe-
dro Sànchez, che aveva visitato le cascate  qualche
anno prima  e  diceva che erano ancora un posto in-
cantevole.  Solo che  non era più possibile avventu-
rarsi per quelle montagne liberamente come un tem-
po: la cascata ora si trova all'interno di una riserva
ambientale e l'unico modo per vederla era organiz-
zare un'escursione guidata rivolgendosi a un albergo
lì vicino.  -  Anche se l'esperienza di salire per quei
sentieri con qualcuno che ti spiega in continuazione
il paesaggio, insieme  a una serie  di altre  famiglie
con bambini  chiassosi  al  seguito, non coincideva
granchè con il contesto solitario del mio ricordo, il 
panorama era ancora magnifico, pieno di alberi  e
cespugli autoctoni, ricco di vita animale.   E c'era
sempre l'aspettativa della grande cascata al termi-
me della nostra ascesa.
Ma quello che abbiamo trovato non assomugliava
affatto alla grande cascata di un tempo. Un rivoletto 
d'acqua scendeva giù nello stesso bacino cavernoso
e pieno di rocce dei miei ricordi, creando una pozzet-
ta dove l'acqua arrivava al massimo alle ginocchia.
Nuotare nella pozza in ogni caso era proibito, perchè
i turisti si erano tutti strofinati  la pelle  con creme e 
lozioni solari e avrebbero rischiato di contaminare la 
purezza della fonte.

Lucianone