degli altri mondi
hanno colonizzato l'Occidente
(da 'la Repubblica' RCULT - 23 ottobre 2011 . di Giuseppe Videtti)
Trent'anni fa l'Olympia e la Carnegie Hall
cominciarono a riempirsi con cantanti come
la messicana Chavela Vargas o l'algerino
Cheb Khaled: era l'inizio della "world music",
e così l'Occidente si apriva ai suoni degli altri
mondi. Quella che sembrava una passione di
nicchia, si è trasformata oggi in una delle
principali risorse di compositori e star; da
Bjòrk a Shakira, da Eddie Vedder a Bregovic;
l'ibridazione con i ritmi etnici è diventata una
risposta alla crisi del pop. E' ormai diventata
la nostra colonna sonora: Multiculturale.
Chavela Vargas
Due milioni di persone a Tharir Square, Cairo.La grande piazza non riesce a contenerle. La folla
preme dalle grandi arterie del centro, Kasr el Nil,
Talaat Harb, fin dalla Ramses Station, dove i fel-
lahin arrivano dall'Alto Egitto e dal Delta. Non
è la rivoluzione ma un funerale. Il popolo è venuto
per l'ultimo saluto a Oum Kalthoum, la più grande
cantante del mondo arabo. Contravvenendo alle re-
gole islamiche, le autorità sono costrette a postici-
pare le esequie di due giorni. Motivi di ordine pub-
blico. Non riescono a caricare il feretro sul carro
come previsto. gli egiziani reclamano la loro diva,
la bara passa di mano in mano, sulle teste di uomini,
donne e bambini che piangono "la mamma" e non
smettono di cantilenare 'Enta omri", sei la mia vita,
la più popolare delle sue canzoni.
E' il 4 febbraio 1975. Le immagini dell'addio alla
Callas d'Egitto (che nel 1967 fece piangere Marie
Lafòret durante un raro concerto all' Olympia di
Parigi) fanno il giro delle televisioni di lingua
araba, ma l'eco è fievole nel mondo occidentale.
Da noi si consumano canzonette da tre minuti,
quelle di Oum Kalthoum sono poemi in musica
che durano tre quarti d'ora, e per contenerli ci
vuole un intero long playing.
Non c'è attenzione per le musiche del mondo. Eppure
Robert Plant, la voce dei Led Zeppelin, dice che Oum
Kalthoum è la sua musa. lo ripete anche Peter Gabriel,
che diventerà uno degli ambasciatori delle musiche del
mondo.
chaka Khan, la soul singer americana, cita tra le sue
maestre Yma Sumac, la cantante peruviana più melo-
diosa di un usignolo, ma non ci saranno orecchie
pronte ad ascoltare "altri suoni" prima del 1982
quando l'etichetta "world music" diventa la ban-
diera della comunicazione globale con largo anticipo
sull'avvento di internet.
I suoni del mondo circolano più facilmente con i
flussi migratori, ma trovano affezionati anche tra
i fan irriducibili del pop-rock; e i più prestigiosi teatri
del mondo, dal Barbican di Londra alla Carnegie Hall
di New York, dall' Olympia di Parigi alla Suntory Hall
di Tokyo, spalancano le porte a Chavela Vargas, pasio-
naria messicana tanto cara a Frida Khalo, Camaron de
la Isla, eroe del nuovo flamenco, e Cheb Khaled, travol-
gente interprete del raì algerino.
Non saranno più solo sporadiche vedette a varcare i
confini dell'impero come Edith Piaf e Amalia Rodri-
guez, Chevalier e Aznavour o blasonati esponenti di
tango e bossa nova che flirtano coi jazzisti americani
(Piazzolla e Jobim e Joào Gilberto) o suonatori di sitar
indiani arrivati all'orecchio dei rocchettari per buona
volontà dei Beatles (vedi Ravi Shankar o contagiosi
rasta giamaicani che con reggae e marijuana si intru-
folano nelle fantasie rock - la dinastia dei Marley - o
frenetici 'mambo kings' sbarcati a Manhattan negli
anni d'oro del Palladium - Celia Cruz e Tito Puente -
MA una legione di talenti provenienti da deserti remoti,
giungle inesplorate, lande sconfinate, villaggi sperduti,
steppe ghiacciate, savane che celano nell'ombelico del
mondo (Jovanotti) ritmi e tradizioni scampate all'im-
perialismo del pop.
delle poche certezze del mercato discografico. Con
riscontri commerciali che gli etnomusicologi di un
tempo neanche avrebbero immaginato: i fratelli Lo-
max, che giravano il mondo per registrare voci sul
campo, o i discografici che in Italia coraggiosa-
mente stampavano canti dell'Angola o saltarelli
marchigiani nei dischi Albatros, tanto di nicchia
da essere venduti in libreria (come quelli meravi-
gliosi pubblicati in Francia da 'Le chant du monde').
E' come se all'improvviso si scoperchiasse un secondo
vaso di Pandora rimasto sigillato e ne venissero fuori
ritmi, lingue e melodie sconosciute e scatenasse una
Babele sonora in cui miracolosamente l'ascoltatore
non perde il filo ma prende confidenza con i 'tuva'
della Mongolia, le polifonie corse e bulgare, 'morne'
e 'coladere' capoverdine, 'lundum' di Sào Tomé e
'ponchack' coreano. Come capita spesso l'arte anti-
cipa la società perchè, da anni, è già multiculturale.
Così oggi, nel momento di massima crisi del pop, la
world music è una risorsa tanto indispensabile quanto
inevitabile. Lo storico duetto Neneh Cherry & Youssou
N'Dour - che cantarono 'Seven Seconds' (1994) come
se fossero cresciuti insieme e non una a Stoccolma e
l'altro a Dakar - ha spalancato le porte a una nuova
fusion che, dalle siderali esplorazioni dell'islandese
Bjòrk all'ammiccante melisma della colombiana Sha-
kira (che ha un solido pedigree mediorientale), dal-
l'appassionata collaborazione di Eddie Vedder dei
Pearl Jam col principe del qawwali pakistano Nusrat
FatehAli Khan (nella colonna sonora di 'Dead man
walking') alle travolgenti fanfare zigane di Goran
Bregovic, è diventata talmente familiare da rendere
plausibile e per niente dissonante persino un duetto
fra Celentano e Cesària Evora, la diva scalza di Capo
Verde. La world music è ormai la colonna sonora del
comune sentire.
in Inghilterra, esordisce il Festival Womad (World of
music, arts and dance), che Peter Gabriel finanzia con
i proventi della reunion dei Genesis. E' il primo passo
per la realizzazione dei Real World Studios a Bath,
nel Wiltshire, un sogno che Gabriel cova da anni e
realizza nel 1989: una sorta di laboratorio musicale
multietnico in un angolo incantato della campagna
inglese. La prima compilation pubblicata, 'Passion -
Sources', è il manifesto della Real World, con musiche
dal Senegal e dall'Egitto, dal Marocco e dall'Iran, dal-
l'Armenia e dalla Guinea, dall'Etiopia e dallo Zaire;
in soli due anni oltre 75 artisti di 20 paesi del mondo
transitano negli studi di Bath.
mondo", dice Gabriel. "Avevo una casa in Senegal
e mentre scrivevo la colonna sonora per 'L'ultima
tentazione di Cristo' di Scorsese, scoprii il duduk,
un meraviglioso strumento armeno che Djavan
Gasparyan suonava in maniera inimitabile. Il Wo-
mad Festival è stato il mezzo che mi ha messo a
contatto con decine di incredibili talenti che nes-
suno avrebbe mai scritturato in Occidente".
Il 'Telegraph' l'ha battezzato "l'angelo custode
della world music"; in effetti senza di lui non
avremmo conosciuto le esotiche meraviglie del-
l'Orchestra Baobab nè il sontuoso melisma di
Youssou N'Dour, tantomeno i tamburi del Bu-
rundi o le litanie dei monaci tibetani.
Continua...to be continued...