sabato 25 febbraio 2017

Musica / Jazz - La fucina del grande Miles Davis, attraverso rari bootleg

25 febbraio 2017                           visione post - 140

BOOTLEG - 
Pubblicate rare registrazioni in studio
del grande trombettista: non versioni compiute 
e poi scartate di brani celebri, ma le conversazioni
con gli altri strumentisti, le indicazioni, frammenti.
Uno sforzo filologico prezioso che svela un metodo. 

(Da LA LETTURA, Corriere della Sera - 24 dicembre
2016 - di Claudio Sessa)
"Suonala così..."
IL 24 ottobre 1966 Miles Davis stava provando con il
suo contrabbassista  un nuovo brano, Freedom Jazz
Dance. "Suonale in glissando, fai tutto in glissando", 
gli dice con la sua caratteristica voce roca (leggenda 
vuole che se la fosse rovinata litigando subito dopo
un'operazione alle corde vocali). Ron Carter ci prova.
"No, non devi glissare tutto". "Ma mi hai detto di farlo
tutto. Non so su che note farlo".  "Bè, prova con metà 
delle note... no, dài, così è troppo scontato".  E' l'inizio
del box Freedom Jazz Dance, quinto volume dei cosid-
detti "Bootleg Series" Columbia/Legacy che mettono 
ordine con rigore filologico   nell'enorme  produzione 
del grande trombettista.
Un bootleg, nel gergo degli appassionati di musica, è 
un disco registrato  dal vivo  senza autorizzazione; i
concerti di Davis, popolarissimo  fin dagli anni Cin-
quanta presso un pubblico stilisticamente trasversa-
le, sono stati riprodotti a centinaia e da qualche an-
no vengono "ufficializzati" nelle migliori condizioni
tecniche possibili. I precedenti volumi avevano recu-
perato concerti del 1967, del 1969, del 1970 e (con il
quarto) l'intera serie di esibizioni del trombettista al
festival di Newport, fra il 1955 e il 1975. Ma non van-
no dimenticati altri recuperi "filologici", come The 
Complete Live At The Plugged Nickel 1965 (8cd), The
Cellar Door Sessions 1970 (6 cd), o il monumentale
The Complete Miles Davis at Montreux (20 cd, l'uni-
co pubblicato dalla Wea).
Ciò che rende unica  l'ultima uscita  è il fatto che, con-
traddicendo l'idea di bootleg, nei 3 cd di Freedom Jazz
Band si ascolta il quintetto di Davis in studio d'incisio-
ne. 
Anche qui non ci sarebbe nulla di nuovo. Da anni, nel
mondo del jazz, dagli archivi  escono  preziosi reperti 
inediti, che illuminano  di  nuova  luce  le  concezioni 
estetiche di grandi artisti. Ma in questo caso vengono 
pubblicati i nastri completi di alcune sedute celebri,
in particolare quelle che diedero vita a Miles Smiles:
uno dei dischi più riusciti del trombettista, anche per-
chè  guidava  un  quintetto  d'eccezione, con Wayne 
Shorter al sax tenore, Herbie Hancock al pianoforte,
Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla bat-
teria, ovvero alcuni fra i maggiori capiscuola degli
 ultimi cinquant'anni.

















L'ascoltatore entra dunque nel privatissimo mondo
delle prove d'autore: un brano - che spesso fino a po-
chi minuti prima gli esecutori nemmeno conoscevano
- viene tentato, a volte per poche note, quindi nasce
una discussione su come affrontarlo, e poi si riprova,
magari una decina di volte.  Noioso?  No, quando si
riesce a seguire  l'esplosione  del carisma  di Miles;
quando si coglie il clima di complicità fra i cinque;
quando si percepisce la malleabilità nel pensiero di
ciascuno, soprattutto nella sezione ritmica, che da
un frammento all'altro cambia spesso radicalmente 
il flusso sonoro che sostiene il brano.   Quindi ci si
sporge oltre il tema, nell'invenzione di assoli spesso
interrotti dopo poche battute: Davis voleva conser-
vare la spontaneità dell'invenzione per la versione
definitiva (quella conosciuta da cinquant'anni),
che spesso era l'unica completa.
Si comprende dunque l'associazione  di questi nastri
al concetto di bootleg come occasione in qualche mi-
sura rubata, di cui non era prevista la diffusione.
D'altra parte, sono rari i momenti in cui sia rimasta
documentata  la scintilla creativa:  è il caso del cele-
bre brano di Wayne Shorter Nefertiti, quando il trom- 
bettista propone: "Ehi ragazzi, perchè non suoniamo
solo la melodia, senza fare assoli?" e tutti rispondono
che stavano pensando la stessa cosa. Ne nasce un bra-
no epocale, con la batteria a rumoreggiare sotto il te-
ma sempre ripetuto eppure sempre nuovo. Ma perfi-
no con Davis, che pure era un privilegiato, il nastro
dell'incisione spesso veniva riavvolto per economia,
lasciando ai posteri frammenti spezzati in modo ca-
suale. E nelle belle note di copertina, Ashley Kahn
sottolinea  le frasi  più significative  (quasi sempre
provenienti dal leader)  e le commenta riscoltando-
le con Ron Carter, che riflette acutamente sulle lo-
giche e l'intesa di allora.



In definitiva, siamo di fronte a un'operazione, di

snobistico voyeurismo  e  sfruttamento degli ulti- 
mi reperti inediti  del "divino Miles"  o  all'indi-
spensabile recupero di schizzi d'autore?
Certamente in ogni disciplina si pone questo dubbio,
nella pubblicazione dei manoscritti con le prime pro-
ve di uno scrittore oppure nella radiografia di un di-
pinto per spiare i disegni preparatori e i "pentimenti
d'artista".  E si può immaginare che quest'album in-
teressi soprattutto i musicisti, i quali sulla musica da-
visiana hanno costruito buona parte della didattica
contemporanea. Ma la differenza, nel jazz, sta nella
dimensione  collettiva  della creazione: l'invenzione
non sta (soltanto) nel cervello dell'autore ma nel con-
creto dialogo collettivol, che dunque davvero può re- 
stare documentato.
Esiste qualche precedente all'operazione condotta in
Freedom Jazz Dance. Nel 2001 uscì per Bluebird l'e-
dizione completa del capolavoro  di Charles Mingus 
Tijuana Moods, nella quale riemersero i dialoghi e le
versioni preparatorie di buona parte del disco; le i- 
struzioni del grande contrabbassista sono un effica-
cissimo manuale del suo metodo di lavoro, totalmen-
te diverso da quello di Davis  e  ben poco basato sul-
l'intuizione estemporanea.   In molti altri casi all'a-
scoltatore rimangono solo  le  cosiddette  alternate  
take, versioni giudicate meno riuscite di quella scel-
ta per la pubblicazione e dunque rimaste nei casset-
ti delle case discografiche.
Quando il jazz, negli anni Quaranta, cominciò a esse-
re giudicato una musica "d'arte" e non solo "di moda"
qualcuno capì che anche le versioni scartate  contene-
vano gioielli d'improvvisazione.  -  Oggi, per esempio,
possiamo ascoltare praticamente ogni nota suonata in
studio d'incisione  da  Charlie Parker, anche  le poche
battute  prima  che  un difetto  (magari accompagnato  
da una  colorita  imprecazione)  facesse  interrompere
l'esecuzione, oppure intere sedute di John Coltrane, al
quale un rapporto privilegiato con la casa discografica
impulse permetteva  di documentare  ogni idea, anche
quando il mercato non richiedeva un suo nuovo disco.
E grazie al cielo archivisti lungimiranti hanno conser-
vato molti inediti anche dei grandi classici, come Bix 
Beiderbecke e Jelly Roll Morton, che i limiti tecnolo-
gici dell'epoca impedirono di catturare dal vivo.



Lucianone