Visione post - 200
Parole della piccola D.D. Bridgewater:
"Quando avevo sette anni riunii la mia famiglia
e dissi solennemente: voglio fare la cantante jazz,
voglio andarmene a Parigi e voglio diventare
una star".
Parole della grande D.D. Bridgewater:
"Sì, sono una donna serena e realizzata, ma
sono anche molto arrabbiata: bisogna fare
una enorme fatica per farsi strada in un
ambiente così macho business e razzista.
Quanto agli uomini, giuro mai più".
(da 'la Repubblica' - 31/ 10/ '15 - L'incontro /
Lottatrici - Giuseppe Videtti)
Il teatro è vuoto. I musicisti riuniti sul palco. E' l'ora
delle prove, pomeriggio prima del concerto. "Non per-
dete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti, lo spetta-
colo è fottuto, la serata è fottuta". E' il boss che parla,
una lady di ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque
anni appena compiuti, ancora molto sexy, Dee Dee
Bridgewater ha attraversato Quasi mezzo secolo di
jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istan-
bul si riempirà di tremila persone che penderanno
dalle sue labbra. Niente errori alla sua età e con la
sua reputazione. Si avvicina, strizza l'occhio: "Ho
imparato la lezione a vent'anni ", mi bisbiglia al-
l'orecchio. "Al Village Vanguard di New York ero
la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle
prove, ma io sbirciavo. Ero affascinata da come
gestiva i suoi affari, un'artista indie ante litteram:
produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho
sempre voluto essere come lei, libera e rispettata".
Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono so-
lo abbracci e strette di mano e occhiate d'intesa.
La tensione si scioglie come miele nel latte caldo
quando Dee Dee prova per intero una sola canzone,
The Music Is the Magic di Abbey Lincoln ("La Billie
Holiday della nostra generazione"). Non ancora con-
certo ma già sublime: "La musica è la magia di un
mondo sacro/ un mondo che è sempre dentro di noi"
ripete con un impareggiabile, elegante, sensuoso
fraseggio. E' una delle canzoni in programma, in.-
sieme alle perle del nuovo Dee Dee's Feathers (Ed.
Okeh Sony), l'album dedicato a New Orleans e rea-
lizzato con l'orchestra del giovane Irvin Mayfield,
band leader con due Grammy alle spalle che ha
perso il padre durante Katrina. "E' stata un'espe-
rienza molto toccante", racconta Dee Dee, "abbia-
mo inciso all'Esplanade, una vecchia chiesa distrut-
ta dall'uragano riadattato a studio di registrazione,
un posto magico". Dee Deeìs Feathers, al quale han-
no collaborato Dr. John e Harry Connick Jr., è il
disco che la riconcilia con gli Usa dopo tanti anni
trascorsi in Francia. Ora vive a Los Angeles, ha 2
nipotini dalla figlia dalla figlia maggiore Tulani e
collabora con China Moses, avuta dal secondo ma-
rito (Gabriel Durand, nato dal matrimonio parigino,
l'accompagna spesso alla chitarra).
jazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una
star internazionale'.
"Pare che il sogno si sia avverato", racconta rilas-
sandosi nel camerino dove già incominciano ad ar-
rivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori
per l'annuale festival dei tulipani). I suoi non si stu-
pirono più di tanto, il jazz era di casa. "Mio padre,
un uomo bellissimo, suonava la tromba, accompa-
gnò anche Dinah Washington in più di una occasio-
ne. Ho dei ricordi fantastici di me e mia madre che
gli correvamo dietro per tener sotto controllo le sue
scappatelle". A Parigi ci sarebbe finita davvero,
molti anni dopo, da star. Prima ci sarebbero stati
l'università, la fuga dal Michigan e il precoce ma-
trimonio con Cecil Bridgewater, trombettista, co-
me quel padre casanova che lasciava troppo sole
le donne di casa. "Nei primi anni Settanta ero già
una pasionaria del jazz", ricorda. "Mi trasferii con
Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò
la mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa
la domenica, vado al Vanguard il lunedì. Presi il
coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti,
io sono molto meglio della cantante che avete. Il
lunedì successivo mi convocarono per un'audizio-
ne al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird
e Eveyday I Have the Blues. Fui scritturata all'i-
stante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis".
A quel punto persino il rifiuto subito dalla Motown
a sedici anni le sembrò una storia remota e irrile-
vante paragonata al percorso entusiasmante che
stava intraprendendo con artisti come Sonny Rol-
lins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderley Jr.,
Horace Silver e Stanley Clarke mentre si prepara-
va a incidere il suo primo album, Afro Blue (1974),
oggi un cult per i jazzofili.
de libro del jazz. A vent'anni aveva chiaro in mente
uello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Si-
mone, accattivante come Johnny Mathis, militante co-
me Harry Beòlafonte, esplosiva come Nancy Wilson,
indipendente come Betty Carter, sensuale come Dia-
hann Carroll e Lena Horne. Troppe virtù in una sola
cantante. Il mondo della musica era un macho busi-
ness, e lei non era ancora la lady di ferro, nonostan-
te il Tony Award avuto nel 1975 per il suo exploit
in The Wiz a Broadway (i tre Grammy sarebbero
arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi
a Ella Fitzgerald e Billie Holiday). "All'epoca era
molto in voga il couch casting: vale a dire che qual-
siasi produttore provava a stenderti sul divano pri-
ma di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los
Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresi-
dente di una multinazionale. Mi invitò nel suo uffi-
cio - Dio, non lo dimenticherò mai! - le foto della
moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania
e sulle pareti. A brutto muso mi chiese: vuoi diven-
tare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposa-
E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l'album fu
archiviato. A casa l'atmosfera non era migliore.
Gilbert Moses , mio marito, un regista famoso e
psicologicamente violento nei miei confronti, mi
teneva lontana dalle scene in maniera umiliante.
Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai
in Europa". L'occasione fu l'ingaggio nel musical
Sphisticated Ladies e, successivamente in Lady Day,
spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le
porte della discografia. "Avevo un debito nei con-
fronti di Billie. La prima volta che l'ascoltai dissi,
non sa cantare, non ha l'estensione di Ella, di Sa-
rah Vaughan o di Carmen McRae. Poi lessi l'auto-
biografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in
maniera maniacale a scovare similitudini: lei vio-
lentata, io violentata; lei abusata dalle suore in
una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli
uomini, io irrimediabilmente attratta da... gang-
ster e papponi", confessa con una smorfia di di-
sgusto. "Quale altra donna avrebbe insistito a
cantare una protesta violenta come Strange Fruit
in un periodo così difficile per gli afroamericani,
quando il razzismo era così spietato da vietarci
l'ingresso dalla porta principale? Dopo Strange
Fruit cominciò a essere perseguitata dalla polizia,
fu bandita dai night club di New York. Non fu solo
l'eroina a distruggerla, ammesso che sia stata mor-
te naturale e non un complotto come molti musici-
sti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere".
Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina.
"Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi
alla sua vita, a quella di tanti altri afroamericani
non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland.
Il razzismo non è mai finito. Ora che abbiamo un
presidente afroamericano il partito repubblicano
ha buttato giù la maschera e si è rivelato per quel-
lo che è, spudoratamente razzista".
"Quando avevo sette anni riunii la mia famiglia
e dissi solennemente: voglio fare la cantante jazz,
voglio andarmene a Parigi e voglio diventare
una star".
Parole della grande D.D. Bridgewater:
"Sì, sono una donna serena e realizzata, ma
sono anche molto arrabbiata: bisogna fare
una enorme fatica per farsi strada in un
ambiente così macho business e razzista.
Quanto agli uomini, giuro mai più".
(da 'la Repubblica' - 31/ 10/ '15 - L'incontro /
Lottatrici - Giuseppe Videtti)
Il teatro è vuoto. I musicisti riuniti sul palco. E' l'ora
delle prove, pomeriggio prima del concerto. "Non per-
dete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti, lo spetta-
colo è fottuto, la serata è fottuta". E' il boss che parla,
una lady di ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque
anni appena compiuti, ancora molto sexy, Dee Dee
Bridgewater ha attraversato Quasi mezzo secolo di
jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istan-
bul si riempirà di tremila persone che penderanno
dalle sue labbra. Niente errori alla sua età e con la
sua reputazione. Si avvicina, strizza l'occhio: "Ho
imparato la lezione a vent'anni ", mi bisbiglia al-
l'orecchio. "Al Village Vanguard di New York ero
la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle
prove, ma io sbirciavo. Ero affascinata da come
gestiva i suoi affari, un'artista indie ante litteram:
produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho
sempre voluto essere come lei, libera e rispettata".
Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono so-
lo abbracci e strette di mano e occhiate d'intesa.
La tensione si scioglie come miele nel latte caldo
quando Dee Dee prova per intero una sola canzone,
The Music Is the Magic di Abbey Lincoln ("La Billie
Holiday della nostra generazione"). Non ancora con-
certo ma già sublime: "La musica è la magia di un
mondo sacro/ un mondo che è sempre dentro di noi"
ripete con un impareggiabile, elegante, sensuoso
fraseggio. E' una delle canzoni in programma, in.-
sieme alle perle del nuovo Dee Dee's Feathers (Ed.
Okeh Sony), l'album dedicato a New Orleans e rea-
lizzato con l'orchestra del giovane Irvin Mayfield,
band leader con due Grammy alle spalle che ha
perso il padre durante Katrina. "E' stata un'espe-
rienza molto toccante", racconta Dee Dee, "abbia-
mo inciso all'Esplanade, una vecchia chiesa distrut-
ta dall'uragano riadattato a studio di registrazione,
un posto magico". Dee Deeìs Feathers, al quale han-
no collaborato Dr. John e Harry Connick Jr., è il
disco che la riconcilia con gli Usa dopo tanti anni
trascorsi in Francia. Ora vive a Los Angeles, ha 2
nipotini dalla figlia dalla figlia maggiore Tulani e
collabora con China Moses, avuta dal secondo ma-
rito (Gabriel Durand, nato dal matrimonio parigino,
l'accompagna spesso alla chitarra).
"Mia madre mi ha confidato che a sette anni riunii la
famiglia e dissi solennemente: ' Voglio fare la cantantejazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una
star internazionale'.
"Pare che il sogno si sia avverato", racconta rilas-
sandosi nel camerino dove già incominciano ad ar-
rivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori
per l'annuale festival dei tulipani). I suoi non si stu-
pirono più di tanto, il jazz era di casa. "Mio padre,
un uomo bellissimo, suonava la tromba, accompa-
gnò anche Dinah Washington in più di una occasio-
ne. Ho dei ricordi fantastici di me e mia madre che
gli correvamo dietro per tener sotto controllo le sue
scappatelle". A Parigi ci sarebbe finita davvero,
molti anni dopo, da star. Prima ci sarebbero stati
l'università, la fuga dal Michigan e il precoce ma-
trimonio con Cecil Bridgewater, trombettista, co-
me quel padre casanova che lasciava troppo sole
le donne di casa. "Nei primi anni Settanta ero già
una pasionaria del jazz", ricorda. "Mi trasferii con
Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò
la mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa
la domenica, vado al Vanguard il lunedì. Presi il
coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti,
io sono molto meglio della cantante che avete. Il
lunedì successivo mi convocarono per un'audizio-
ne al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird
e Eveyday I Have the Blues. Fui scritturata all'i-
stante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis".
A quel punto persino il rifiuto subito dalla Motown
a sedici anni le sembrò una storia remota e irrile-
vante paragonata al percorso entusiasmante che
stava intraprendendo con artisti come Sonny Rol-
lins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderley Jr.,
Horace Silver e Stanley Clarke mentre si prepara-
va a incidere il suo primo album, Afro Blue (1974),
oggi un cult per i jazzofili.
Nonostante i tentativi di affermarsi con canzoni più
commerciali, il destino di Dee Dee era scritto nel gran- de libro del jazz. A vent'anni aveva chiaro in mente
uello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Si-
mone, accattivante come Johnny Mathis, militante co-
me Harry Beòlafonte, esplosiva come Nancy Wilson,
indipendente come Betty Carter, sensuale come Dia-
hann Carroll e Lena Horne. Troppe virtù in una sola
cantante. Il mondo della musica era un macho busi-
ness, e lei non era ancora la lady di ferro, nonostan-
te il Tony Award avuto nel 1975 per il suo exploit
in The Wiz a Broadway (i tre Grammy sarebbero
arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi
a Ella Fitzgerald e Billie Holiday). "All'epoca era
molto in voga il couch casting: vale a dire che qual-
siasi produttore provava a stenderti sul divano pri-
ma di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los
Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresi-
dente di una multinazionale. Mi invitò nel suo uffi-
cio - Dio, non lo dimenticherò mai! - le foto della
moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania
e sulle pareti. A brutto muso mi chiese: vuoi diven-
tare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposa-
E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l'album fu
archiviato. A casa l'atmosfera non era migliore.
Gilbert Moses , mio marito, un regista famoso e
psicologicamente violento nei miei confronti, mi
teneva lontana dalle scene in maniera umiliante.
Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai
in Europa". L'occasione fu l'ingaggio nel musical
Sphisticated Ladies e, successivamente in Lady Day,
spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le
porte della discografia. "Avevo un debito nei con-
fronti di Billie. La prima volta che l'ascoltai dissi,
non sa cantare, non ha l'estensione di Ella, di Sa-
rah Vaughan o di Carmen McRae. Poi lessi l'auto-
biografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in
maniera maniacale a scovare similitudini: lei vio-
lentata, io violentata; lei abusata dalle suore in
una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli
uomini, io irrimediabilmente attratta da... gang-
ster e papponi", confessa con una smorfia di di-
sgusto. "Quale altra donna avrebbe insistito a
cantare una protesta violenta come Strange Fruit
in un periodo così difficile per gli afroamericani,
quando il razzismo era così spietato da vietarci
l'ingresso dalla porta principale? Dopo Strange
Fruit cominciò a essere perseguitata dalla polizia,
fu bandita dai night club di New York. Non fu solo
l'eroina a distruggerla, ammesso che sia stata mor-
te naturale e non un complotto come molti musici-
sti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere".
Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina.
"Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi
alla sua vita, a quella di tanti altri afroamericani
non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland.
Il razzismo non è mai finito. Ora che abbiamo un
presidente afroamericano il partito repubblicano
ha buttato giù la maschera e si è rivelato per quel-
lo che è, spudoratamente razzista".
Dee Dee Bridgewater restò in Europa perchè in
America non c'erano parti in teatro per attrici e
cantanti di colore. "E per amore", confessa. "A
Parigi incontrai l'uomo che sarebbe diventato il
mio terzo e ultimo marito, il produttore Jean-
Marie Durand. Lasciai Parigi dopo vent'anni,
nel 2007, quando cominciai a sentire anche lì
puzza di razzismo. I critici fecero a pezzi il mio
J'ai deux amours, il mio disco francese, , salvo
poi portare alle stelle Diana Krall. Solo dopo
l'uscita di Red Earth - l'album realizzato in Malì
alla ricerca delle mie radici - ho avuto la mia ri-
vincita. Ma a quel punto l'amore non c'era più
e io ero pronta a tornare in patria". Neanche
Parigi è riuscita a tenerla al riparo dal machi-
smo del music business. Truffata da "un mana-
ger che si rivelò un aspide", non ebbe una lira
dalle vendite milionarie di Till the Next Some-
where, il duetto inciso con Ray Charles nel 1989.
"La vicenda finì in tribunale. Negli anni del pro-
cesso solo Ray cercò di confortarmi. 'Ricorda, ci
saranno centinaia di manager, ma c'è una sola
Dee Dee Bridgewater', mi disse. 'Appartieni al
pubblico, è per lui che devi restare la numero uno,
e avrai una carriera per tutta la vita'. Ed eccomi
qui, a un punto dove non avrei mai creduto di ar-
rivare. Serena, realizzata e senza marito. Uomini?
Giuro, mai più".
America non c'erano parti in teatro per attrici e
cantanti di colore. "E per amore", confessa. "A
Parigi incontrai l'uomo che sarebbe diventato il
mio terzo e ultimo marito, il produttore Jean-
Marie Durand. Lasciai Parigi dopo vent'anni,
nel 2007, quando cominciai a sentire anche lì
puzza di razzismo. I critici fecero a pezzi il mio
J'ai deux amours, il mio disco francese, , salvo
poi portare alle stelle Diana Krall. Solo dopo
l'uscita di Red Earth - l'album realizzato in Malì
alla ricerca delle mie radici - ho avuto la mia ri-
vincita. Ma a quel punto l'amore non c'era più
e io ero pronta a tornare in patria". Neanche
Parigi è riuscita a tenerla al riparo dal machi-
smo del music business. Truffata da "un mana-
ger che si rivelò un aspide", non ebbe una lira
dalle vendite milionarie di Till the Next Some-
where, il duetto inciso con Ray Charles nel 1989.
"La vicenda finì in tribunale. Negli anni del pro-
cesso solo Ray cercò di confortarmi. 'Ricorda, ci
saranno centinaia di manager, ma c'è una sola
Dee Dee Bridgewater', mi disse. 'Appartieni al
pubblico, è per lui che devi restare la numero uno,
e avrai una carriera per tutta la vita'. Ed eccomi
qui, a un punto dove non avrei mai creduto di ar-
rivare. Serena, realizzata e senza marito. Uomini?
Giuro, mai più".
Lucianone