lunedì 21 dicembre 2015

Musica - Un' arrabbiata doc: Dee Dee Bridgewater


Risultati immagini per dee dee bridgewater












       Visione post - 200

Parole della piccola D.D. Bridgewater:
"Quando avevo sette anni  riunii  la mia famiglia 
e dissi solennemente: voglio fare la cantante jazz,
voglio andarmene a Parigi e voglio diventare
una star".
Parole della grande D.D. Bridgewater:
"Sì, sono una donna serena e realizzata, ma 
sono anche molto arrabbiata: bisogna fare
una enorme fatica per farsi strada in un
ambiente così macho business e razzista.
Quanto agli uomini, giuro mai più".


(da 'la Repubblica' - 31/ 10/ '15  - L'incontro /
Lottatrici  -  Giuseppe Videtti)

Il teatro è vuoto. I musicisti riuniti sul palco. E' l'ora
delle prove, pomeriggio prima del concerto. "Non per-
dete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti, lo spetta-
colo è fottuto, la serata è fottuta".  E' il boss che parla,
una lady di ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque
anni appena compiuti, ancora molto sexy,  Dee  Dee
Bridgewater ha attraversato Quasi mezzo secolo di
jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istan-
bul si riempirà di tremila persone che penderanno
dalle sue labbra. Niente errori alla sua età e con la
sua reputazione. Si avvicina, strizza l'occhio: "Ho
imparato la lezione a vent'anni ", mi bisbiglia al-
l'orecchio. "Al Village Vanguard di New York ero
la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle
prove, ma io sbirciavo.  Ero affascinata  da come 
gestiva i suoi affari, un'artista indie  ante litteram:
produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho
sempre voluto essere come lei, libera e rispettata".
Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono so-
lo abbracci e strette di mano e occhiate d'intesa.
La tensione si scioglie come miele nel latte caldo
quando Dee Dee prova per intero una sola canzone,
The Music Is the Magic di Abbey Lincoln ("La Billie
Holiday della nostra generazione"). Non ancora con-
certo ma già sublime:  "La musica è la magia  di un
mondo sacro/ un mondo che è sempre dentro di noi"
ripete  con  un impareggiabile, elegante, sensuoso
fraseggio.  E' una delle canzoni in programma, in.-
sieme alle perle del nuovo Dee Dee's Feathers (Ed.
Okeh Sony), l'album dedicato a New Orleans e rea-
lizzato con l'orchestra del giovane Irvin Mayfield,
band leader con due Grammy alle spalle  che ha
perso il padre durante Katrina. "E' stata un'espe-
rienza molto toccante", racconta Dee Dee, "abbia-
mo inciso all'Esplanade, una vecchia chiesa distrut-
ta dall'uragano riadattato a studio di registrazione,
un posto magico". Dee Deeìs Feathers, al quale han-
no collaborato Dr. John  e  Harry Connick Jr., è il 
disco che la riconcilia  con gli Usa  dopo tanti anni
trascorsi in Francia. Ora vive a Los Angeles, ha 2
nipotini dalla figlia dalla figlia maggiore Tulani e
collabora con China Moses, avuta dal secondo ma-
rito (Gabriel Durand, nato dal matrimonio parigino,
l'accompagna spesso alla chitarra).

"Mia madre mi ha confidato che a sette anni riunii la
famiglia e dissi solennemente: ' Voglio fare la cantante
jazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una
star internazionale'.
"Pare che il sogno si sia avverato", racconta  rilas-
sandosi nel camerino dove già incominciano ad ar-
rivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori
per l'annuale festival dei tulipani). I suoi non si stu- 
pirono più di tanto, il jazz era di casa. "Mio padre,
un uomo bellissimo, suonava la tromba, accompa-
gnò anche Dinah Washington in più di una occasio-
ne. Ho dei ricordi fantastici di me e mia madre che
gli correvamo dietro per tener sotto controllo le sue
scappatelle".  A Parigi  ci sarebbe  finita  davvero, 
molti anni dopo, da star. Prima ci sarebbero stati
l'università, la fuga dal Michigan e il precoce ma-
trimonio con Cecil Bridgewater, trombettista, co-
me quel padre casanova che lasciava troppo sole
le donne di casa.  "Nei primi anni Settanta ero già 
una pasionaria del jazz", ricorda. "Mi trasferii con
Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò
la mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa
la domenica, vado al Vanguard il lunedì.   Presi il
coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti,
io sono molto meglio della cantante che avete.  Il
lunedì successivo mi convocarono per un'audizio-
ne al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird
e Eveyday I Have the Blues.  Fui scritturata all'i-
stante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis".
A quel punto persino il rifiuto subito dalla Motown
a sedici anni le sembrò  una storia remota  e irrile-
vante paragonata al percorso entusiasmante  che
stava intraprendendo con artisti come Sonny Rol-
lins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderley Jr., 
Horace Silver e Stanley Clarke mentre si prepara-
va a incidere il suo primo album, Afro Blue (1974),
oggi un cult per i jazzofili.

Nonostante i tentativi  di affermarsi  con canzoni più
commerciali, il destino di Dee Dee era scritto nel gran-  
de libro del jazz.  A vent'anni  aveva chiaro  in mente
uello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Si-
mone, accattivante come Johnny Mathis, militante co-
me Harry Beòlafonte, esplosiva come Nancy Wilson,
indipendente come Betty Carter, sensuale come Dia-
hann Carroll e Lena Horne. Troppe virtù in una sola
cantante. Il mondo della musica era un macho busi-
ness, e lei non era ancora la lady di ferro, nonostan-
te il Tony Award  avuto nel 1975  per il suo exploit  
in The Wiz a Broadway  (i tre Grammy sarebbero
arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi
a Ella Fitzgerald e Billie Holiday). "All'epoca era 
molto in voga il couch casting: vale a dire che qual-
siasi produttore provava a stenderti sul divano pri-
ma di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los 
Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresi-
dente di una multinazionale. Mi invitò nel suo uffi-
cio - Dio, non lo dimenticherò mai! - le foto della
moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania
sulle pareti. A brutto muso mi chiese: vuoi diven-
tare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposa-
E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l'album fu
archiviato. A casa  l'atmosfera non era migliore.
Gilbert Moses , mio marito, un regista famoso e 
psicologicamente violento nei miei confronti, mi
teneva lontana dalle scene in maniera umiliante.
Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai
in Europa".   L'occasione fu l'ingaggio nel musical
Sphisticated Ladies e, successivamente in Lady Day,
spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le
porte della discografia. "Avevo un debito nei con-
fronti di Billie. La prima volta che l'ascoltai dissi,
non sa cantare, non ha l'estensione di Ella, di Sa-
rah Vaughan o di Carmen McRae. Poi lessi l'auto-
biografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in 
maniera maniacale a scovare similitudini: lei vio-
lentata, io violentata; lei abusata  dalle suore  in 
una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli
uomini, io irrimediabilmente attratta da... gang-
ster e papponi", confessa con una smorfia di di-
sgusto.  "Quale altra donna  avrebbe insistito a
cantare una protesta violenta come Strange Fruit
in un periodo così difficile per gli afroamericani,
quando il razzismo  era così spietato  da vietarci
l'ingresso dalla porta principale?  Dopo Strange
Fruit cominciò a essere perseguitata dalla polizia, 
fu bandita dai night club di New York. Non fu solo
l'eroina a distruggerla, ammesso che sia stata mor-
te naturale e non un complotto come molti musici-
sti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere".
Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina.
"Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi
alla sua vita, a quella di tanti  altri  afroamericani
non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland.
Il razzismo non è mai finito.  Ora che abbiamo un
presidente afroamericano il partito repubblicano
ha buttato giù la maschera e si è rivelato per quel-
lo che è, spudoratamente razzista".
Dee Dee Bridgewater restò in Europa perchè in
America non c'erano parti in teatro per attrici e 
cantanti di colore. "E per amore", confessa. "A
Parigi incontrai l'uomo che sarebbe diventato il
mio terzo  e  ultimo marito, il produttore Jean-
Marie Durand.  Lasciai Parigi dopo vent'anni,
nel 2007, quando cominciai a sentire anche lì
puzza di razzismo. I critici fecero a pezzi il mio
J'ai deux amours, il mio disco francese, , salvo 
poi portare alle stelle Diana Krall.   Solo dopo
l'uscita di Red Earth - l'album realizzato in Malì
alla ricerca delle mie radici - ho avuto la mia ri-
vincita. Ma a quel punto l'amore non c'era più
e io ero pronta a tornare in patria".   Neanche
Parigi è riuscita a tenerla al riparo dal machi-
smo del music business. Truffata da "un mana-
ger che si rivelò un aspide", non ebbe una lira
dalle vendite milionarie di Till the Next Some-
where, il duetto inciso con Ray Charles nel 1989.
"La vicenda finì in tribunale. Negli anni del pro-
cesso solo Ray cercò di confortarmi. 'Ricorda, ci
saranno  centinaia  di manager, ma c'è una sola 
Dee Dee Bridgewater', mi disse.     'Appartieni al
pubblico, è per lui che devi restare la numero uno,
e avrai  una carriera  per tutta la vita'. Ed eccomi
qui, a un punto dove non avrei mai creduto di ar-
rivare. Serena, realizzata e senza marito. Uomini?
Giuro, mai più".



 Lucianone

Sezione personale - Le mie poesie (1970-1972 / 1977)


Prima raccolta di poesie                   visione post - 45
                     
          Luciano Finesso



--- ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
                                                - Eugenio Montale -

                                   
                         ATTIMO per ATTIMO

La madre

La pioggia batteva sui vetri.
La madre piangeva:
il figlio Giovanni era al fronte.
La madre fissava:
un punto lontano guardava.
Il figlio Francesco era al fronte.

La pioggia bagnava lenta...
la madre asciugava
due pupille già bagnate.
I suoi due figli erano morti.

Il sole splendeva nella stanza:
la madre lentamente chiudeva
due inanimate pupille.                           1970


Vedo il vuoto  

Vedo il vuoto
e mi commuovo senza ragione
Vedo il vuoto
nel senso eterno della vita
vedo te
nel fondo di cristallo lucente.
Vedo il vuoto
in ordine apparirmi davanti,
vedo il vuoto
in visione di soldati morenti.
Vedo te
correre supplicando verso di me.

Vedo il vuoto
e non amo la guerra,
vedo il vuoto
nell'azzurro di tanti tuoi baci.
Vedo te
che piangi i soldati morenti.
Vedo il vuoto
e con te piango
tutti i soldati morti e non sepolti.             1970

Bevi l'acqua

Bevi l'acqua
nel cavo della mano...
un fiore.
Bevi l'acqua
Mentre tutti si scannano fuori
E uno solo piange qui
Sul cavo della mano,
triste.
Bevi l'acqua
che scorre sulla roccia...
un soldato.
Bevi l'acqua
mentre urla di sangue
colano dal soffitto
sul cavo della mano,
sconsolato,
mi rifugio nel bunker.                           1970

Ora o mai più

Ora o mai più
il trascendente angelo s'immerge
nel pacato silenzio.
Ora o mai più
il ghetto oscuro
affiora dalla latrina
per innalzare "gospels".
Ora o mai più
il trascendente si spara ...
un colpo!
Ora o mai più
vedrai ombre
nella stanza:
ora o mai più
vedrai il tempo
che un angelo
piomberà immobile
sul Mare Morto.                          1970

Gioco sottile

Padrone del bel giglio,
o Zeus,
satollami nel più santo dei giochi.
Per morte di un salice
che tristemente singhiozza
nel trespolo del mio povero essere.
Racconta quali pose assurde,
là sull'ampio colle di Venosa,
tra i monti Appennini,
ti hanno costretto ad assumere
i malvagi oracoli
di un lontano mare.
Racconta quante lune
ha spento l'ira di Achille.
Ritorna, o Zeus, al tuo antro
e lascia per un attimo soli
questi passivi bambini
nel loro gioco sottile.                   1971

Fiesta

Era il sol di maggio
così pulito e così etereo,
vivissima spiritualità
vicino al fosso
dove cantavano in molti
così vispi nell'ossessione di far baccano.
Poi le maschere,
danzando nel verde,
si traevan sul pulpito
a decantare quel mistero inespresso
nel sonno di un Dio.

Era la fiesta di Spagna
che ci incitava nel calore
di ogni dì
a ribellarci e inneggiare
alla santa alleanza di libertà.           1971

Alabastro

Sasso  di Sassari
Nel sussurro del sozzo sapiente.
Sogno di mezza sagra
Nel sesto secolo del sasso che sorge,
Mentre si staglia nel bel seme
Tutto il sospiro
Di una non decifrata soave verginella
Che ti porge, o sasso di Sassari,
Tutti i rimpianti
Di una scrittura sagace
Che vorresti odorare
Nel lento vagare della sinuosa tua voglia.

Ed ecco che nel sasso di Sassari
Si sente il tocco di un alabastro.
Ogni sacro sasso si fonde
Col solido e forte
Alabastro                                             1971

Ribellione umana

Se mi vedo nel blu
Non mi riconosco più.
Torero invelenito nella bianca arena
Fatta di ossa di toro con la bile nelle corna.
Orario normale per un ragazzaccio di provincia
che vede nel toro la vittima color cioccolata.

Diciamo la verità,
osiamo turbare la pace dei nostri rossi cuori
pagando nella persona il fatto dell'ingiuria.

Ma tu non osi errare nel lungo tuo giro
Perchè temi il furore del male ingiusto.
E sei solo un povero verme incapace di reazione.
Perchè non vuoi l'adeguamento
Nel comune insorgere,
Se ti vedi nel blu
Non ti riconosci più.                              1971

Senza più capire le cose

Dovendo dare il segno
per un ricordo di città,
mi tuffo nell'arido caos
del tiglio infossato.
Torna e ritrova l'angelo
il suo perduto uomo.

O luna del cuore,
non si vive per un battito d'ali
solo per due giorni di lotta
nel torbido latte...
In giuramento di cose
per cose lontane,
senza più capire le cose.                       1971

Tempo di andare

Ieri, non più tanto di un istante,
scorgevo te riflessa nell'acqua.
Mostravi il candore di bimba
innocentemente avviluppata nei sogni.
Tempo di andare,
sì, era tempo di andare,
ma tu non conoscevi la meta.
Tu ignoravi le gravi trincee
con sacchi di terra,
lassù,
al fronte costellato di luci e di scoppi.

Tempo di andare,
forse più non verrò
a mirare il cielo pulito del tuo cuore.
Se mai non dovessi venire,
custodisci in te questi ricordi
di oggi.                                                1971

Fatto noto

Era un fatto chiarito
da te.
Il melo cresceva di giorno in giorno
Nel giardino vuoto.
Era un fatto conosciuto
da molti.
La vita giaceva in fondo al pozzo
Nel cortile deserto.
Era un fatto noto
a me solo.
Le parole non si volevan staccare
dalla lingua secca.                                 24.04.1972

Attimo

Ancora
sapendomi in vita
adesso posso lucidamente vedere:
tutto è stato un attimo
quando l'attimo è concluso
in
continuazione vitale...
e l'incubo indefinito
nel finito spazio dell'attimo
si è spento in SHOCK!
ed esterrefatto e ritenuto e protratto
in tante piccole
continuazioni vitali
quando l'attimo è finito
tutto è stato proprio un attimo
sapendomi in vita
ancora protratto e ritenuto ed esterrefatto
nell'attimo del ricordo-epigrafe 24 del 7 del '77:
autostrada
con sbandamento...                                                 1977


Ora o mai più  -   Ispirazioni:  Guerra nel Vietnam; 
                            segregazione razziale negli Usa;
                            lettura di "Un altro mondo" di Baldwin.

Fiesta  -  Ispirazione:  "Per chi suona la campana" /
                                  'For whom the bell tolls'  di E.
                                  Hemingway.

Alabastro  -  Gioco di parole con la lettera "s"

Tempo di andare -  Ispirazioni:  Canzoni / testi
                              di Bob Dylan; guerra nel Vietnam


Lucianone   

giovedì 3 dicembre 2015

Sezione Fotografia - Christina Broom, la prima fotoreporter inglese

TUTTE LE FOTO  DI  Christina Broom
Christina Broom

Nel 1903, a 40 anni, l'inglese Christina Broom
si inventò il mestiere di fotografa, e scatto dopo
scatto divenne la prima donna fotoreporter della
storia.
visione post - 48
Come è già evidente dal titolo della mostra  
che finalmente  Londra  le ha dedicato,
"Soldiers and Suffragettes, the Photography
of Christina Broom" (dal 19 giugno al 1° no
vembre 2015) al Museum of London Dock-
lands, nelle sue foto ci sono prima di tutto
soldati della Prima guerra mondiale e  poi
suffragette. Quindi, immagini ufficiali della
Householòd Division (le guardie della Regina),
i reali in carrozza e arcivescovi in processione,
marinai e suore, bambini e giocatori di cricket.
Tutti in posa, o colti al volo, davanti all'obiettivo
di Christina Broom, passata alla storia come "the
UK's first female press photographer", ma tuttora
misconosciuta.
Nata nel 1862, non fu certo  l'unica fotografa  di Londra
del secolo scorso, ma di sicuro fu la sola a non rimanere
confinata in uno studio, e a spostarsi in tutta la città con
mood fa fotoreporter, trascinandosi dietro la pesante ar-
matura fotografica in cerca dello scatto giusto. Poi svi-
luppava i negativi nella sua casa a Fulham, utilizzando
la carbonaia come camera oscura.  Cominciò a fotogra-
fare a 40 anni, nel 1903, quando il marito rimase ferito
in un incidente e lei dovette inventarsi un mestiere per
la sopravvivenza della famiglia:  si fece  prestare  una
macchina fotografica da un amico e imparò a fotografa-
re da autodidatta, aiutata dalla figlia Winifred.
Scelta curiosa, ma vincente: in una carriera più che tren-
tennale  (morirà nel 1939)  i suoi scatti saranno richie-
stissimi sia come cartoline  (vendute in un chiosco  ai
Royal Mews di Buckingham Palace), da giornali co-
me Illustrated London News, Tatler, Sphere e Country
Life. -  Scatterà circa 40 mila fotografie, ma quelle che
più colpiscono oggi sono senz'altro le immagini realiz-
zate durante le manifestazioni di suffragette che si ten-
nero in quegli anni a Londra, come la Women's Sunday
del 1908  (a Hyde Park)  e  la Women's Exhibition  del
1909.  Ancora più sorprendenti se si considera che Chri-
stina Broom non era un'attivista. "Senza dubbio intravvide
l'importanza degli eventi in prospettiva storica" sottolinea
Anna Sparham, curatrice della mostra, "ma credo che si sia
interessata a quegli eventi più da un punto di vista fotogra-
fico e commerciale che per dare un contributo personale al-
la causa".
(da ' il Venerdì di Repubblica' - 21 agosto '15 - Francesca
Frediani)

King George V Queen Mary tea party wounded soldiers
Three soldiers sign 'More Luck'

Bermondsey B'hoys Wellington Barracks
Wounded patients King Edward VII Hospital

Lucianone

venerdì 6 novembre 2015

CULTURA - Il premio nobel per la letteratura V.S. Naipaul


Parla il premio nobel Naipaul:
dal colonialismo al fondamentalismo

(da 'la Repubblica' - 22/07/'15 - R2Cultura / Intervista di Berna Gonzàlez Harbour)
visione post - 65

"Io, l'India e l'Islam"                         
Tante persone ci avevano avvertito di tutto ciò che può
far arrabbiare Sir Vidia, cosicchè  siamo andati  all'ap-
puntamento con il rispetto che ci scorreva nel midollo,
per usare un eufemismo. Ma V.S. Naipaul, nato a Tri-
nidad nel 1932, premio Nobel per la letteratura nel 2001,
è molto più che un enfant terrible  della letteratura uni-
versale: ha descritto lo sradicamento con la sua penna 
potente; ci ha fatto riflettere sull'Islam, la fede e il mon-
do; Ha seminato dubbi su Gandhi; e ha ritratto con vi-
gore le frustrazioni delle vite senza scelta. Ha combina-
to narrativa e non-fiction  con un'arbitrarietà stupefa-
cente e geniale. 
E poi, sì, è vero: si arrabbia  con i giornalisti  quando 
non conoscono le sue opere, li esamina  su ciò  che
chiedono, e mette fine alle interviste quando gli pare.
L'appuntamento nel suo appartamento nel quartiere
di Chelsea, a Londra, nella prima intervista che conce-
de da un anno e dopo i ripetuti avvertimenti di rigore
su ciò che si guarda ma non si tocca (la sua vita priva-
ta, la critica o la qualifica del suo lavoro come "lette-
ratura di viaggio", che lo disturba  in modo partico-
lare) aveva quindi  tutti i presupposti  per essere ri-
schioso.
Naipaul ci riceve già seduto, o installato, su una sedia.
Muove appena le gambe, gli occhi rimangono socchiu-
si e la sua volontà di rispondere  ancora  non sembra 
essersi destata. "Ci vuole un pò di riscaldamento", ci
dice per aiutarci Nadira Khannum Alvi, la sua secon-
da moglie, con cui ha condiviso gli ultimi 20 anni.
E lui? Sorpresa: non solo non si arrabbia, o non lascia
che trapeli troppo dal suo volto distante e indurito. Si
emoziona. E addirittura piange.
INTERVISTA
B. G. Harbour -  La preoccupa l'immagine che resterà
di lei?
Naipaul -  "No, per niente"
B.G. Harbour -  In "Un'area di tenebra" Lei descrive
un'India fatta di divisioni, di inefficacia, di insensibili-
tà, che le fa male. L'India la fa ancora soffrire?
Naipaul -  "Sì. La gente mi chiede ora perchè non de-
scrivo più  l'orrore  per  le strade, se tutto questo  è
scomparso. E io rispondo di no, ma non posso scri-
vere sempre le stesse cose. Provo a cambiare mentre
cambiano le mie sensazioni, ma senza mai dimentica-
re quello che ho scritto prima. Ha senso quello che di-
co?".
B.G. Harbour -  Lei ha scritto romanzi e saggistica per
tutta la vita. Che soddisfazione e quali difficoltà ha tro-
vato in ciascun genere?
Naipaul - "E' una domanda molto seria, sul mio modo
di scrivere, a cui ora non potrei rispondere. Non posso
rispondere con una frase semplice.  Ci sono  cose  così
difficili da spiegare sulla scrittura, e su cui non è facile
nemmeno parlare... Provi con un'altra domanda".
B.G. Harbour -  Perchè a volte ha preferito scrivere
narrativa e altre volte saggistica?
Naipaul - "Uno dei motivi potrebbe essere che sei 
stanco di un certo modo e hai molta voglia di pro-
varne un altro. E un altro è che ci sono  alcune cose 
che esigono di essere raccontate in un determinato
modo. Quando si vive questa esperienza, uno dice:
'Questo lo scriverei in questo determinato modo'.
Per esempio, come non-fiction".
B.G. Harbour -  "Un'area di tenebra", e quel primo 
viaggio in India, che cosa hanno rappresentato per
lei?
Naipaul - "Credo che abbia significato molto, perchè
era la prima volta che scrivevo su un'esperienza così
forte, il primo viaggio in India.  Ma  non posso  dire 
molto di più, credo che questa spiegazione sia suf-
ficiente. A meno che... vedo nei suoi occhi che vor-
rebbe chiedermi qualcos'altro rispetto a questo".  
B.G. Harbour -  Lei ha detto, per esempio, che Gandhi
ha fallito, a 30 anni dalla sua scomparsa.  Continua  a
pensare che abbia fallito?"
Naipaul - "Certamente"
B.G. Harbour -  Perchè? 
Naipaul - "Perchè le sue idee  e  il suo messaggio sono
così profondi, abbracciano talmente tutti gli aspetti di
India, che per poter dire che ha avuto successo dovreb-
be aver provocato un rovesciamento totale nel Paese.
E non lo ha fatto".
B.G. Harbour -  La deluse anche l'Inghilterra coloniale.
Pensa che l'Inghilterra abbia imparato ad apprezzare le
sue ex colonie?
Naipaul - "Io non ho detto niente di così radicale sul-
l'Inghilterra. Non mi permetterei mai di fare grandi
affermazioni su paesi così importanti. Questo non si
può fare. Questi paesi sono così grandi  e così impor-
tanti, e dipendiamo così tanto da loro, che dobbiamo
imparare ad accettare tutto quello che hanno".
B.G.Harbour -  E' vero che lei non parla d'Inghilterra,
ma dell'"essere inglesi", di come si scontrò con l'India.
Pensa che quell'atteggiamento dell'Inghilterra nei con-
fronti delle sue vecchie colonie si sia evoluto, sia cam-
biato? L'Inghilterra ha imparato a stimare la gente del-
le sue ex colonie?
Naipaul - "Credo di no, e non vedo alcun motivo per
cui dovrebbe farlo (lui e la moglie ridono).   Quando
iniziai a scrivere mi dissi che c'era una serie di parole
che non dovevo  mai  usare.  Una era 'colonialismo'. 
Un'altra, 'imperialismo'. Se eamina i miei scritti  non
le troverà".
B.G. Harbour -  Come descriverebbe il suo stile? 
Profondo, crudo, onesto? Propongo queste parole, ma
vorrei  che lo definisse lei. 
Naipaul - "E' impossibile farlo. Quando  uno  comincia
ad analizzare i propri scritti come se fosse un critico si
mette su una strada che porta alla follia".
B.G. Harbour -  Parliamo di Islam, ha scritto sul radica-
lismo islamico. Lo teme?
Naipaul - "Non ho paura perchè in realtà sono deboli e
sarebbe molto facile  farla finita con loro, distruggerli,
se le grandi potenze   si mettessero   d'accordo.  Tutta 
questa tiritera islamista ha poca sostanza. Dico questo
perchè si basa su molte cose che vengono  dal mondo
arabo e che stanno cercando di inserire nel loro mo-
do di pensare, finora senza successo.  E' una buona
risposta?".
B.G. Harbour -  E dove si è sbagliato in Occidente?
Naipaul - "Non credo che l'Occidente abbia sbagliato.
Lo sbaglio, la mancanza di pensiero, la mancanza di 
idee è stata dalla parte dell'Islam".
(El Pais / LENA  -  traduzione di Luis E. Moriones)



Lucianone

mercoledì 21 ottobre 2015

Musica - Kurt Cobain e il suo mondo... sconosciuto

21 ottobre 2015                                                                                 visione post - 46


V O C E    N U D A
Canzoni e parole: 
il mondo sconosciuto di Kurt Cobain

( da la Repubblica - 12/ 10/ 2015 -   R2Spettacoli - Gino Castaldo / Roma)
Giusto? Sbagliato? Come reagire di fronte alle
ripetute uscite di materiali privati, inediti rimasti
nel cassetto, invisibili, anzi in questo caso inaudi-
bili per chiunque non fosse nella stretta cerchia
dell'artista? Se poi l'artista in questione si chiama
Kurt Cobain, la vicenda è ancora più scottante.
Già il documentario Montage of heck, di Brett Morgen,
ci aveva restituito un ritratto folgorante e poco filtrato
del geniale rocker, grazie all'accesso, concesso dalla
famiglia, a materiali privati mai visti prima. Scene di 
vita casalinga miste a pezzi di concerto, chiacchiere,
disegni, diari. Ma se il documentario ha stabilito uno
standard per così dire particolarmente intimo (perfino
criticato per aver mostrato scene così incredibilmente
private della vita di Cobain), la versione discografica
del progetto, ovvero Montage of heck: the home recor-
dings (che sarà in vendita dal 13 novembre in doppia
versione, standard con 13 pezzi e deluxe con 31 e che
qui presentiamo in anteprima) con le sue storture, le
distorsioni, i rumori, i parlati, sembra  ancora  più
spudoratamente intima, una visita privata  in quel
riservato mondo  che Cobain costruiva  quando  si
trovava da solo davanti a un registratore domestico
e provava, storpiava, rifaceva pezzi di musica, idee,
una fotografia senza filtri dell'artista nel suo più ri-
servato momento creativo.
Giusto? Sbagliato? Difficile a dirsi, ma è pratica-
mente impossibile rimanere insensibili di fronte a
queste impudiche fotografie sonore di quel giova-
ne dalla faccia d'angelo destinato suo malgrado,
quasi per sbaglio, a diventare il recalcitrante eroe
di un'intera generazione. I Nirvana apparvero al-
l'improvviso, come un imprevisto ciclone intitola-
to Nevermind (1991) che riaccendeva passioni rock
e portava  alla massima espansione  quel termine, 
"X generation", inventato per definire quel sapore
di nulla che  colorava gli orizzonti sociali  dopo il
crollo di certezze e ottimismi seguito al baby boom
degli anni Sessanta e Settanta. 
Le musiche di Montage of heck  raccontano  com'era
Kurt Cobain a casa, senza veli, senza tutto quello che 
poi nei passaggi successivi diventava dischi, spettaco-
li, apparizioni pubbliche, riaprendo vecchie ferite, ri-
svegliando quel traumatico senso di perdita lasciato
dopo l'insensato  e  folle suicidio, scoperto  a Seattle
l'8 aprile del 1994.  Cobain  aveva  27 anni, in linea 
con una fosca e maledetta tradizione che ha falciato
alcuni  tra i migliori protagonisti  della rivoluzione
del rock.

 
Il materiale è spaventosamente grezzo, disperata-
mente autentico, come nel caso della versione ori-
ginale di Sappy, un pezzo da culto che ha una sto-
ria molto singolare, e che   in   questa  obliqua  e
sghemba raccolta possiamo ascoltare così com'era
nata nella mente di Cobain. - Sappy è considerato
uno dei classici mancati dei Nirvana con infiniti e 
mai soddisfacenti tentativi di metterla a punto, e
pur essendo stata scritta intorno al 1987 (il demo
presente nel disco dovrebbe risalire a quel perio-
do) Cobain non era mai soddisfatto della resa in
studio  e  fu scartata all'ultimo momento  anche
dalla scaletta di In utero, per essere pubblicata 
come traccia fantasma non accreditata  in una
compilation. Il che  non ha impedito  ai fan  di 
impadronirsi del pezzo, di amarlo perdutamen-
te, al punto che veniva chiesto con insistenza ai
concerti. Come accadde anche in Italia, nel feb-
braio del 1994 poco prima della scomparsa  di
Cobain. Il pubblico chiedeva a gran voce Sappy
e Krist Novoselic, il bassista dei Nirvana, chiese
al pubblico dove l'avessero sentita, come faces-
sero a conoscerla.  -   In Montage of heck c'è la
scarna, essenziale versione originale del pezzo,
particolarmente emozionante.  Altre chicche, 
una  The yodel song dove Cobain gioca con li-
beri deliri vocali, vecchie demo di rarità come
Been a son o Clean up before she comes, Scoff,
e un fantastico medley di tre pezzi che termina
con la prima originale versione di Something 
in the way. Più puri esperimenti di rumore elet-
trico, montaggi bizzarri, un lungo monologo fi--
nale di voce e chitarra intitolato Do Re Mi.
Nelle registrazioni lo ascoltiamo mentre distor.
ce la sua chitarra, delira, urla, canta, racconta,
gioca con una cover dei Beatles, And I love her,
mette giù  frammenti di pezzi  che  in qualche
caso sono diventati brani ufficiali dei Nirvana,
compone collage sonori col suo quattro piste. 
Ed è lui, lui solo, intimo e disastrato, un nau-
frago aggrappato a una chitarra per non es-
sere sommerso da un oceano di sofferenza.


Lucianone

venerdì 31 luglio 2015

Cinema - Tutto Orson Welles

Visione post - 28


Capolavori di O. Welles sotto le stelle
Alla prima apparizione di Orson Welles in piazza, nel
"Terzo uomo" di Carol Reed, erano in cinquemila. Da
stasera e fino al 27 luglio le celebrazioni della Cinete-
ca di Bologna   per il centenario  della nascita  di 
Welles, avvenuta il 6 maggio del 1915 a Kenosha in
Winsconsin, entrano nel vivo con una parata di titoli 
immortali, tutti in versione originale sottotitolata.
Si comincia con il suo film d'esordio, che è anche la
pellicola che più di ogni altra ha cambiato il linguag-
gio cinematografico hollywoodiano: "Citizen Kane-
Quarto potere".  Enfant prodige del teatro e della
radio  (il 31 ottobre  del 1938  annunciò  lo sbarco
degli alieni sulla Terra craendo il panico trab i ra-
dioascoltatori), Welles venne scritturato a soli 24
anni dalla RKO,m che gli concesse carta bianca,
per realizzare il suo primo lungometraggio.  Ne
nacque "Quarto potere", ancora oggi considera-
to dai molti critici tra i film più belli dell'intera 
storia del cinema, certo tra i più studiati e inter-
pretati.  "Un labirinto senza centro",  lo definì
Borges per descrivere le mille e più suggestioni
che si dipanano intorno alla vicenda del magna-
te americano Charles Foster Kane, interpretato
dallo stesso Welles, e plasmata sulla storia vera
del milionario William Hearst, che fece di tutto
per boicottare la pellicola. A quell'esordio geniale
seguì una carriera travagliatissima.  A partire dal
titolo in programma domani sera "The magnificent
Amberson" - L'orgoglio degli Amberson", realizza-
to nel 1942 e falcidiato dai tagli di distribuzione.




L'omaggio a O. Welles prosegue con il dialogo di
Welles con Shakespeare: il "Macbeth" si vedrà il 
19 e "Othello", che inaugura tra l'altro il periodo
italiano del cineasta, il 20.  "Mr.Arkadin - Rapporto
confidenziale", il titolo di Welles  più amato  da
Truffaut, illumina la piazza il 22, mentre il 23 c'è
un altro dei capolavori, "Touch of Evil- L'infernale
Quinlan" con Welles alla regia  e  nel ruol a caso
conta Janet h Leigh e Marlene Dietrich.
Da Franz Kafka è poi tratto nel 1962 "Il processo",
il 24, mentre a chiudere la maratona il 27 è "F for
Fake", testamento artistico  e  spirituale dov'è lo
stesso Welles a mostrare  una chiave  ai tanti che 
hanno cercato di indagare il suo cinema, dicendo:
"Questa chiave non vuole essere il simbolo di niente".
Eppure quella chiave, in queste serate all'ombra di
San Petronio, continueremo a cercarla.



  
Lucianone

giovedì 18 giugno 2015

Lo scrittore Peter HANDKE (2) - Incontro con intervista

visione post - 225

(da "Corriere della Sera" - 31 maggio 2015 /
LaLettura - di Alessandra Iadicicco - da Chaville/Francia)

Il narratore austriaco, al centro di molte polemiche durante
la guerra dei Balcani, oggi coltiva meli, raccoglie funghi e
osserva i finferli che crescono..
Scrivere mi spaventa, rifiuto la politica.
Sono un profugo del mio tempo.
Vivo nel bosco:
ascolto gli alberi
che sussurrano
"Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando
al margine del bosco , tra l'erba o sotto l'edera, va-
le la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio".
L'invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo
uno scambio di lettere e di osservazioni  sul tradurre, 
dopo la richiesta di un incontro  e  l'invio  di qualche 
immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei
porcini raccolti l'estate scorsa in Alto Adige, nei giorni
in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cer-
catore di funghi:  un  racconto fiabesco, la storia di 
un'incredibile avventura  uscita  in questi giorni  da 
Guanda. Lui aveva risposto con la foto  di un gigan-
tesco piatto di funghi da lui stesso cucinati  per Ca-
podanno.
Handke ha un sense of humour che contraddice l'im-
magine, che in genere gli si attribuisce, di quell'orso
eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti...
Come dargli torto?  Certe sue posizioni  sono  state 
travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi
della guerra nei Balcani.  Sostenne la popolazione ju-
goslava, sensibile  "alla loro tragedia - disse - ,  alla
loro situazione senza speranza".Si schierò per la Ser-
bia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lan-
ciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini
vittime innocenti del conflitto, per i quali l'anno scor-
so ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ib-
sen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista,
un sostenitore del boia Milosevic  o  addirittura del
sanguinario generale Mladic.  Ora, proprio in nome
"della grande amicizia e della simpatia dimostrata
da Handke verso la popolazione serba", Belgrado 
gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza ono-
raria.
Dopo una vita avventurosa, abita da anni  in solitudine  nel
sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un
muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma
il gesto con cui apre il cancello del giardino - per mostrare
orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfio-
rito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno...
è lui in persona a coltivare le piante - non potrebbe essere
più ospitale.
                      Inizio INTERVISTA
Alessandra Iadicicco - Lei stesso ha tradotto molti libri,
di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
P. Handke - "Ho paura quando scrivo, sempre, ancora
adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma
quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi,
ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo inve-
ce...    Scrivere non è normale come sembra per la 
maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura
non è più la grande spedizione  che potrebbe essere.
Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è natura-
le, ma non è normale.   Può diventare  naturale man 
mano che si scrive, ma l'inizio non è naturale: l'inizio
è un sacrilegio". 
A. Iadicicco - Perchè?
P. Handke - "Non lo so. Non posso sempre dire per-
chè... Però è una necessità vitale. Senza scrivere non
potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la
salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l'ani-
ma, non la nutre a sufficienza.  Anche quando si ama 
molto un libro, o si traduce un autore che si sente affi-
ne. Tradurre non basta.  Però  una volta  tradurre  fu 
per me una salvezza".
A. Iadicicco - Quando? E la salvò da che cosa?
P. Handke - "Fu la prima traduzione, dall'inglese, una
lingua che non amo parlare. Di un autore americano,
Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher,
un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appe-
na tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria.
Per anni avevo vissuto all'estero, prima in Germania,
poi a Parigi. Mi trasferii nel '79 a Salisburgo: volevo 
che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tede-
sco. Ma allora la patria per me era terra straniera.
Fu la traduzione a riportarmi a casas, a rendermi di
nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallela-
mente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indica-
rono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile pa-
tria... La lingua che usai per tradurre mi riportò al
mio posto. Non la scrittura.  Perchè la scrittura, lo
ripeto, è una patria pericolosa...".
A. Iadicicco - Tradurre permette di stringere legami
attraverso confini che oggi, ancorchè invisibili, sono
più che mai soffocanti...
P. Handke - "Già... Nel frattempo gli antichi confini -
politici, economici - sono scomparsi. Eppure i confini
culturali sono molto più forti. I libri - non parlo di libri
veri - sono scritti  dappertutto  allo stesso modo:  in 
America, Russia, Cina... Questa indifferenza è peg-
giore di qualsiasi confine, dei confini  che un tempo
mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre soste-
nute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura.
Si vuole promuovere la letteratura internazionale.
Ma io sento la mancanza  di una letteratura mon-
diale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur,
che nasce dall'eterno scambio tra i popoli attraverso
i confini e i linguaggi. Non potrò mai scomparire, ma
non sai dove scorre.  E' come  un fiume carsico  che
fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l'orec-
chio alle rocce calcaree per capire dove passa e do-
ve verrà alla luce".
A. Iadicicco - Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo
traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari
luoghi di residenza.
P. Handke - "Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a
Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il
luogo: la mia casa, il giardino...".
A. Iadicicco - Una volta ha definito se stesso "uno
scrittore di luoghi"...
P. Handke - "Sarà perchè soffro da sempre per la
mancanza di un luogo, perchè dall'infanzia conosco
il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo e-
pisodico è sempre stato come una grazia per me. Un
posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo,
trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che
possa apparire per tutti".
A. Iadicicco - E come vive il trascorrere del tempo? Ha
l'aria di un uomo che non invecchia. Come "il cercatore
di funghi": da bambino non voleva sapere nulla del suo fu-
turo. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell'inti-
mo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.
P. Handke - "E' così: decisivo per me è rimasto il 
mormorare degli alberi sul margine del bosco.  Se
mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi  più a 
coglierlo, mi direi:  hai perso tempo, hai mancato 
il momento. Questo è il tempo per me. Non il tem-
po politico. Rifiuto di credere che il tempo politico
sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito.
Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto in-
dietro come la moglie di Lot, a guardare verso la
politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra,
con la quale non si può fare nulla.    No, il tempo  
per me è un altro.  Anche tutte le mie spedizioni
libresche mi portano in un altro tempo.   L'altro
tempoè, credo, un Dio buono, l'unico Dio che io
abbia mai visto. E anzi  l'ho sempre visto  c
una donna, una dea: die Gòttin Zeit...   La Dea
Tempo mi ha sempre mostrato un volto femmi-
nile".
A. Iadicicco - E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal
tempo, inattuale?   Nel  "Saggio sul cercatore di funghi"
scrive: "Finchè questa flora selvatica resisterà all'alleva-
mento, alla coltura, fino ad allora l'andar per funghi re-
terà l'avventura della resistenza! Una forma di eternità",
P. Handke - "Però non sono solo i funghi... Voglio
dire. Quando si dice di un libro che è attuale io ri-
spondo: allora non mi interessa. I libri non hanno
niente a che fare con l'attualità. Attualità però è
una bellissima parola. Allude all'azione, alla vita.
Però a me piace riferirmi a un'altra attualità. Vo-
glio dire, non esisterei senza 'il mondo delle no-
tizie'. Quel mondo però contribuisce a darmi l'im-
pulso e l'energia  a pensare  ex negativo qualco-
s'altro. In questo senso ha ragione chi dice di me
che sono uno scrittore utopico.   Perfino nei miei
diari entra il cosiddetto mondo dell'attualità e quel
che mi accade attorno. L'altro giorno, ad esempio,
c'era sul treno una coppia di anziani accompagnati
da due giovani badanti romeni. La scena si svolge-
va in silenzio, gli anziani  erano  muti, come i loro
accompagnatori. Io  però  ho  immaginato  che   i  
quattro intavolassero una singolare conversazione.
E' invenzione, il che non significa fantasia arbitra-
ria, vuol dire da quella che è l'"attualità attuale",
fantasticare su una attualità eterna".
A. Iadicicco - I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari,
sono tutti manoscritti.  La sua scrittura è riprodotta
sulla copertina delle edizioni originali...
P. Handke - "Anche questo segna un tempo diverso.
Da oltre trent'anni scrivo con la matita. Ho comincia-
to a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Pae-
se all'altro , le lettere sulla tastiera della macchina
per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi
distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tan-
to saldo di nervi... Dovevo cercare il tasto giusto e 
la fantasia, la visione interiore era minacciata - no,
esagero - era disturbata. Così ho provato a scrive-
re a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sor-
to un nuovo ritmo, anzi, un'altra Folge,  la chiama
Goethe, un'altra sequenza:  in questo senso sì, la
mia è una scrittura inattuale.Eppure ci sono un paio
di persone che mi leggono. Però mimanca la scrittu-
ra epica. L'avventura del cercatore di funghi è sta-
ta l'ultima".
A. Iadicicco - Come trascorre le sue giornate da solo qui?
P. Handke - "La mattina leggo, annoto quello che è 
accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito ver-
so mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D'inverno
nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi, a Versailles.
Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti.  Comun-
que il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i
libri. Un brutto libro provoca  un'irritazione sterile e 
cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità,
non potrà mai colmare il posto della letteratura, che
al momento è vuoto. Peccato".

A. Iadicicco - Dall'inizio della sua attività letteraria,
dagli "Insulti al pubblico" lei esercita una retorica
dell'invettiva. "Maledione, dannazione, maledizione,
dannazione" dice il narratore del "Saggio sulla gior-
nata riuscita" per esprimere la propria indignazione
dapprima, in gioventù, contro il cielo, poi contro la
società, infine contro se stesso.  Com'è che tante
sue figure sono intonate sulla chiave dell'ira, dello
sdegno, del furore?
P. Handke - "Me lo chiedo anch'io a volte. Un buon
giornalista televisivo, anni fa, con il quale ho anche
girato un film, disse che dentro di me c'è una minie-
ra di furore. Chissà, l'avrò ereditata da mio nonno.
Non sono un ribelle però: ho solo il furore. Goethe,
nel Torquato Tasso, dice: "Nel mio cuore gira una
ruota di gioia e dolore". Io potrei dire che la ruota
che gira nel mio cuore alterni la mitezza al furore.
La mia furia è innocua però, non è odio, è solo fu-
rore".
A. Iadicicco - Contro chi?
P. Handke - "Non lo so! Sarà una malattia.  Mi 
avrà morso un cane da piccolo, o una lumaca.
O mi avrà punto un calabrone..."
A. Iadicicco - Qualcuno in Germania l'ha definita il
"Waldgànger" della letteratura contemporanea.  E' 
l'eroe romantico che nella solitudine del bosco cerca
un rifugio dalla società in cui soffre. Quella parola evo-
ca anche il "Waldgang" di Ernst Jùnger, il "Trattato del
ribelle" che nel bosco cerca l'Altro dal proprio tempo.
Lei nel bosco che cosa cerca?
P. Handke - "Di Jùnger  ho amato  moltissimo
Il cuore avventuroso, mi ha dischiuso il vaso di 
pandora della fantasia. Quanto al bosco, che cosa
cerco... E' come nella poesia di Goethe: "Ich ging
im Walde so fùr mich hin / Und nichts zu suchen,
Das war mein Sinn" (Andavo per il bosco nei miei
pensieri intento, / senza cercare nulla, tale era il mio
sentimento). Non è necessario cercare qualcosa. E'
eccitante, certo. Ma quando non trovo nulla mi sen-
to sollevato, all'inizio sono deluso ma poi  mi sento
libero. L'altro giorno nel bosco ho trovato una palla
da rugby... La gente mi ha visto rientrare in paese e
avrà pensato a una boccia, la petanque, o a un gros-
so fungo! La verità è che raccolgo di tutto. Pietre,
piume di uccelli. E' come una smania, una malattia:
il Suchen, il cercare, si trasforma in una Sucht, una 
dipendenza. Ma nel bosco c'è altro. Ci sono questi
slarghi dove filtra la luce:Claros del bosque li chia-
ma una poetessa-filosofa spagnola, Maria Zambrano.
E nella natura, scriveva Hòlderlin,  "l'jntera mia es-
senza ammutolisce e ascolta".
A. Iadicicco - E i funghi che cosa rappresentano?
L'ultima avventura, l'ultima frontiera, l'ultima fiaba?
P. Handke - "Sono diavoli!  Se  non stai attento  ti 
crescono in casa, marciscono  e  i vermi strisciano 
attorno... E ci diventi matto. L'ho scritto. E mi hanno
raccontato di gente che per la mania dei funghi  ha
perso la testa davvero. A me non è successo (ride).
Però il primo porcino che trovai nel bosco me lo ri-
cordo ancora.  Era  uno spettacolo  per gli occhi, e
in più  potevo gustarlo, poteva  essere  un piacere 
universale per il corpo. Questo è un valore. E' sempre
così per le cose rare che si trovano in natura. Nella fo-
resta qui attorno ci sono posti dove cresce l'aglio orsi-
no, un condimento gustosissimo. O l'erba cipollina sel-
vatica, la si riconosce dal colore: non cìè un altro verde
così scuro e brillante come quello dell'erba cipollina. E
la rucola. Arrivando in treno da Parigi la si vede vici-
no alla stazione di Javel. Una volta sono sceso lungo i
binari per raccoglierla.

Continua... to be continued...

domenica 14 giugno 2015

Personaggio / musica - SHAKIRA e la solidarietà

"LA MIA VITA PER GLI ALTRI"
La famosa cantante colombiana spiega
perchè la solidarietà è un dovere di tutti

Visioni post - 55
(da la Repubblica RCLUB - 6 giugno 2015 - Laura Laurenzi)
Piccola ma carica di energia, aggressiva nei suoi
stivali che fra tacco a stiletto e plateau le regalano 
18 centimetri. Shakira mescola sex appeal e inge-
nuità, ha un viso di bambina sotto la gran criniera
bionda, un sorriso dolce, nulla di minaccioso.
Minuscoli shorts neri, reggiseno arabescato a vista,
l'icona del pop latino offre di sè un'immagine inedita
mentre stringe al petto  - ma solo per un minuto, la
sua assitente glielo porta subito via - il piccolo Sasha,
il suo secondo bambino nato nel gennaio scorso. Ga-
leotto  fu  il Waka Waka, il mondiale di calcio in Sud 
Africa, il colpo di fulmine con Gerard Piqué, difenso-
re del Barca e della nazionale spagnola. 
La incontriamo in un resort a cinque stelle all'ombra
della montagna  di Montserrat, non lontano  da Bar-
cellona, la città in cui  si è trasferita  da quando  ha 
messo su famiglia con il calciatore, che ha dieci anni
esatti meno di lei. - Sospesa tra due modi, è stata de-
finita la giusta combinazione tra corpo e intelletto, tra
impegno sociale e danza del ventre, tra passione e di-
sciplina.  Non è  un nome d'arte  il suo, ispirato dalla
nonna libanese: tradotto dall'arabo Shakira vuol dire
"donna piena di grazia". Al suo attivo oltre sessanta
milioni di dischi venduti e una dozzina  fra Grammy
Billboard Awards: ma oggi non è questo che conta.
Fare del bene in modo sistematico, progettando, pia-
nificando, edificando, è la sua linfa vitale, si direbbe
l'attività  cui tiene di più, quasi una vocazione, se è 
verpo che ha cominciato a praticarla quando era mi-
norenne e che a 26 anni, la più giovane della storia,
era già stata nominata ambasciatrice di buona volon-
tà dell'Unicef. 

Precoce nel canto e precoce nel volontariato.
A cinque anni  già cantava  in un coro, a otto
anni aveva già scritto 19 canzoni, a 11 vinse 
il concorso "Buscando Artista Infantil" - e se 
lo aggiudicò per tre edizioni successive - a 14
anni incise il suo primo album.    E a 18 dette   
vita alla sua personale  fondazione benefica
che chiamò  "Pies descalzos", il titolo di un
suo CD, Piedi scalzi, su cui ancora oggi, a 20
anni esatti di distanza, riversa ogni energia.
A Barranquilla, città portuale della Colombia
dove è nata 38 anni fa, vedeva per la strada
bambini laceri e abbandonati che frugavano
nell'immondizia e sniffavano colla.    "Sono   
cresciuta fra ingiustizie e disuguaglianze molto
forti. La povertà era tutta intorno a me, da pre-
stissimo ho avuto la consapevolezza di cosa vo-
lesse dire non avere niente e da subito mi sono
ripromessa che  se avessi avuto successo  non
sarei rimasta con le mani in mano", racconta,
passando dall'inglese allo spagnolo con qual-
che breve incursione nella nostra lingua. La
parla senza accento, in omaggio a un bisnon-
no italiano, "fiera di avere nel mio sangue e
nel mio dna il retaggio di una delle civiltà più
antiche e più importanti del mondo", dice.
"La mia battaglia è quella per il diritto all'istruzione,
perchè tutti i bambini in ogni angolo della Terra pos-
sano andare a scuola. E' lo strumento migliore  per
un domani di pace. Non c'è investimento che possa
dare risultati più concreti in minor tempo e io dedi-
co a questo ogni energia. Finora nel mio Paese ab-
biamo costruito scuole per circa settemila bambini
che non avevano un futuro, non avevano sogni,  e
abbiamo creato centri di accoglienza per piccoli da
uno a sei anni.  I risultati di questo impegno  sono 
frutti che si colgono rapidamente.  Di recente ab-
biamo costruito una scuola in una zona disagiata
nella periferia di Cartagena  ed è uno spettacolo
vedere come con la scuola è arrivata l'elettricità,
è arrivata l'acqua, è nata una comunità  e  sono
completamente sparite le bande criminali".
Dai bambini di strada alla Casa Bianca. Con l'lmpatto
della sua popolarità non c'è porta che non si sia aper-
ta. Presidenti, capi di stato, primi ministri, Nobel per
la pace: chi dei grandi della Terra l'ha colpita di più?
Shakira ci pensa qualche secondo e poi risponde: 
"Direi Obama. Ammiro molto la sua sfida volta a
garantire a tutti il diritto all'istruzione, una battaglia
cui il presidente fa cenno in quasi tutti i suoi discor-
si ufficiali. Umanamente ha la capacità di concentra-
re la sua attenzione su ogni suo singolo collaboratore,
e questo mi ha molto colpito.  Sono fiera di lavorare 
per lui e per la Casa Bianca: faccio parte di una com-
missione in cui sono consulente sul tema istruzione e
popolazione di origine ispanica negli Stati Uniti". Ha 
incontrato Papa Francesco? "Non ancora, ma spero 
di farlo presto. La sua è una delle voci più importan-
ti del mondo e abbiamo davvero bisogno di una voce
come la sua che parli a nome di chi non viene ascol-
tato da nessuno. Vorrei chiedergli cosa pensa della
nostra campagna  a favore  dei milioni e milioni  di
bambini che oggi  non hanno accesso neppure  alla 
prima elementare. Vorrei che cambiasse la mente
di chi oggi è al comando nei posti chiave".
La filantropia ha molti volti e l'emergenza è sempre 
in agguato. Shakira, che conta oltre 30 milioni di fol-
lowers, non ama esibire  i bei gesti umanitari  ma a 
domanda risponde: "Dopo il terremoto in Nepal ho
fatto una mia donazione personale e attraverso i so-
cial network, in particolare attraverso twitter, ho con-
tattato persone in grado di offrire  congrui contributi
alle famiglie più bisognose sollecitandole a farlo".
E non è Shakira ad annunciarlo bensì l'Unicef in un
comunicato ufficiale: grazie alle donazioni dei suoi 
fan e di quelli del marito, la "Baby Shower Mondiale"
salva-vita lanciata dalla popstar subito prima che na-
scesse il suo secondo figlio ha permesso di raccoglie-
re finora 150 mila dollari sufficienti per 130 mila vac-
cini contro polio e morbillo e per alimenti terapeutici
da distribuire a 15 mila bambini.
Anche se combatte per i diritti delle donne e ancor 
più delle bambine, non ama definirsi femminista: 
"Preferisco femmina, senza nulla togliere al fatto che
le donne sono il seme dell'umanità, le colonne su cui
si fonda la nostra società, le persone che ogni giorno
rendono questo mondo un posto migliore". Cosa più
di ogni altra oggi le dà energia? "L'amore. Sentirmi
amata. E' ciò che mi fa svegliare la mattina e alzarmi
dal letto e abbracciare la vita. Proprio perchò ci sono
stati periodi in cui non ero amata, e so quanto è triste.
Adesso  ho una famiglia mia  e  l'amore  di un uomo: 
non posso desiderare di più".
Gabriel Garcia Marquez, suo amico e ammiratore, la
chiamava "muro di granito" per la sua determinazio-
ne. Nel sociale ma anche quando calca il palcosceni-
co. "Nessuno, a nessuna età, riesce a cantare e bal-
lare in quel modo, con una sensualità così innocente, 
tanto innocente   che sembra  l'abbia  inventata lei",
scrisse il Nobel dopo avere assistito a un suo concerto.
Lei ricambiò componendo i brani musicali del film trat-
to da L'amore ai tempi del colera. Segretamente, sen-
za nessuna pretesa letteraria ma come semplice testi-
monianza, anche Shakira  sta scrivendo  un libro: la 
sua autobiografia. E ' presto per anticipare qualche 
capitolo e poi le cose  da raccontare  sono davvero
tante.

Lucianone

MUSICA / strumenti jazz - La storia del SAX e prospettive future

visione post - 50
Nel progetto "Sax History",
Claudio Pascoli e Amedeo Bianchi
raccontano dall'inizio il percorso di
questo straordinario strumento

Gli uomini in SAX
I due artisti sassofonisti in un viaggio da
Hawkins a Parker, senza dimenticare
Madness e Champs

(da 'la Repubblica' - 7 maggio '15 - Andrea Morandi)
Da un signore di nome Adolphe Sax ai grandi miti
Charlie Parker  e  John Coltrane, dai primi utilizzi
nelle bande militari fino al trionfo grazie al jazz: si
può leggere l'intera storia del Novecento dentro il
percorso  del  sassofono, uno strumento transitato 
dalle accademie europee ai club di New York, dai
palchi di periferia ai grandi concerti. Una vicenda 
singolare e affascinante che  due  dei più celebri
sassofonisti italiani, ovvero Claudio Pascoli - già
sui dischi di Battisti, De Andrè e Guccini - e Ame-
deo Bianchi - da Antonello Venditti a Noel Ghal-
lagher - raccontano nel progetto "Sax History" -
stasera al Trieste di via Pacinotti, Milano.
Una serata in cui i due ripercorreranno la strada
fatta dallo strumento dal 1840, ovvero da quando,
nel suo studio di Bruxelles, il belga Sax lo inventò.
"All'inizio il nostro era un progetto con una matrice
didattica, lo abbiamo anche portato nelle scuole  -
precisa Pascoli  -  poi abbiamo deciso di farne una
versione per il pubblico e così è nato "Sax History", 
un viaggio  in cui  passiamo  da Coleman Hawkins a 
Charlie Parker, ma non solo, spazieremo in ambito
pop, vedi One Step Beyond dei Madness o Tequila
dei Champs, e nel cinema, da Blade Runner a Mo'
Better Blues". Insomma , un viaggio che non sarà
solo jazz, perchè il sassofono ha avuto un notevole
impatto sulla cultura pop, dall'assolo di Phil Woods
in  Just The Way You Are  di Billy Joel  a quello di
Andy Snitzer in  Still Crazy After All These Years 
di Paul Simon. "Senza dimenticare Sonny Rollins
con i Rolling Stones o Michael Brecker con James
Taylor - continua Pascoli - Avevo dodici anni, vidi
un servizio fotografico su Epoca con delle meravi-
gliose immagini di Gerry Mulligan e Sonny Rolling
e decisi  che avrei imparato a suonarlo.   Andai in 
una banda e mi diedero il sax soprano, molto pri-
ma che Coltrane lo rendesse celebre".  "Per me
invece la folgorazione fu casuale - prosegue Bian-
chi - Io volevo fare il pianista, ma al Conservato-
rio non c'era più posto  e  mi misero nel corso di
clarinetto promettendomi che mi avrebbero spo-
stato. Non me ne andai più. Ci tengo a dire una 
cosa però: "Sax History" nasce soprattutto dal-
la profonda amicizia che mi lega a Claudio, con
cui da trent'anni  condividiamo  la passione per
lo strumento, dai tempi dello Studio 7  di corso
Venezia". Due sassofoni, un palco e un reperto-
rio scelto con cura, con una scaletta preziosa che
includerà tanto Moose the Mooche di Charlie Par-
ker quanto St. Thomas di Sonny Rollins e Petite
Fleur di Sidney Bechet.
"Scegliere è sempre difficile - ammette Pascoli -
I miei miti? Credo che  Charlie Parker  sia stato
toccato dall'alto, i suoi fraseggi ancora oggi  suo-
nano come un miracolo".    - "Parker e Coltrane 
hanno aperto nuove porte - spiega Bianchi - ma
se devo fare i miei nomi, dico Cannonball Adder-
ley, seguito da Wyane Shorter e David Sanborn".
Un passato luminoso  quello  del sassofono, av-
volto dal fascino del mito, ma per quanto riguarda
il presente? "Si sente meno, anche nel pop, dove
a volte viene campionato - dice Bianchi, che set-
temnre partirà in tour con Antonello Venditti e a
luglio seguirà l'ex Oasis Noel Gallagher nelle da-
te italiane - ma a volte in musica ci sono dei cicli,
speriamo ritorni".   - "Anche sui dischi italiani si
sente poco, l'ultimo credo  sia atato  Stefani Di 
Battista con Niccolò Fabi - conclude Pascoli -
Un Tempo il sax era considerato il fiore all'oc-
chiello di una produzione musicale, ora invece
si cerca di non deconcentrare troppo l'ascoltatore".

Charlie PARKER
playing sax



Lucianone

sabato 23 maggio 2015

CULTURA - Società / Anniversario Giovanni Falcone: la storia della Mafia

23 maggio '15 - sabato

LA PAROLA  MAFIA
fu scritta 150 anni fa per la prima volta
su un documento ufficiale. E purtroppo
divenne Storia.          visione post - 35


(da 'la domenica' di Repubblica - 10 aprile 2015 /
di Attilio Bolzoni)
E' la parola italiana più famosa al mondo. Più di 
pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari 
e  nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia
incerta - deriva da maha^fat^, espressione araba 
che vuol dire immunità? Da un antico termine to-
scano che indicava ostentazione e boria? -   fino 
al secondo dopoguerra si scriveva e si pronuncia-
va con due "effe". All'anagrafe, e non è certo un
caso, è vecchia quasi quanto lo Stato unitario.
Ma di sicuro c'era già prima, anche se nessuno
le aveva ancora dato un nome. Un fascicolo pre-
fettizio non ha mai fatto la storia, però quello che 
il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato
al ministro dell'Interno del Regno Giovanni Lanza
si è rivelato un segnatempo decisamente importan-
te: indica la data esatta di quando la Mafia ha co-
minciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni
fa.     Documento con tanto di bollo e stemma con
croce sabauda, viva il Re e viva l'Italia. Era il 25
aprile del 1865.
Nata nell'agro palermitano e negli assolati feudi
della Sicilia centrale, questa parola che ha attra-
versato tante vicende politiche e criminali della
nostra nazione non ha avuto sempre lo stesso si-
gnificato. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Un
secolo fa  rappresentava  qualcosa, dopo l'ucci-
sione di Giovanni Falcone  e  Paolo Borsellino
un'altra cosa, un'altra ancora oggi. Ma è stato
quel giorno, il 25 aprile, che la Maffia - che poi
si trasformerà in Mafia - è entrata formalmen-
te e sinistramente nel nostro vocabolario. 
Le prime notizie suk'esistenza di certe canaglie,
"oltre cento, di diverso rango, le quali erano riu-
nite in fermo giuramento  di non rivelare mai la
circostanza  delle loro operazioni  a costo  della 
vita", risalgono al 1828 e ne ha riferito uno sco-
nosciuto magistrato di Agrigento descrivendo
un'organizzazione criminale  che  aveva radici 
fra Cattolica, Cianciana  e    Santo Stefano di
Quisquina. Dieci anni dopo, nel 1838, il procu-
ratore della gran Corte Criminale di Trapani
Pietro Calà Ulloa denunciava che "vi ha in molti
pasi delle unioni o fratellanze, specie di sette che
si dicono partiti, senz'altro legame che quello del-
la dipendenza di un capo che qui è un possidente, 
là un arciprete... sono tante specie  di piccoli go-
verni nel governo". Ma fu solo il prefetto di Palermo,
il marchese Gualterio, in quella primavera del 1865 -
Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque an-
ni prima - ad avvisare "di un grave e prolungato ma-
linteso fra il Paese e l'Autorità", annunciando il peri-
colo che  "la cosiddetta Maffia od associazione ma-
landrinesca potesse crescere in audacia, e che, d'al-
tra parte, il Governo si trovasse senza la debita au-
torità morale  per chiedere  il necessario appoggio
alla numerosa  classe di cittadini  più influenti  per
senso di autorità".  Tratteniamo il  respiro per un
momento e riflettiamoci: centocinquanta anni dopo
è cambiato veramente qualcosa?".
Comunque sia e la si voglia vedere , da quel giorno 
in poi, in Italia, di mafia  non si è più smesso di par-
larne e straparlarne. Prima e dopo Caporetto, nel-
l'era del Duce, nella Prima e nella Seconda Repub-
blica, a Caltanisetta  e  ad Aosta, a  Portella della 
Ginestra e nella Milano "da bere", nella Corleone
di Totà Riina e con Renato Schifani sullo scranno
più alto del Senato. E passando naturalmente per 
l'immarcescibile Giulio Andreotti e il più "corsaro" 
Silvio Berlusconi.
 
Illustrazione tratta dal quotidiano 'L'Ora' relativa al
processo - scaturito grazie al rapporto Sangiorgi - di
Palermo del maggio 1901

TUTTO E' COMINCIATO quel 25 aprile di un secolo
mezzo fa anche se, in verità, un paio di anni prima,
per le strade e i teatrini popolari di Palermo era an-
data in scena una commedia dialettale in tre atti (I
mafiosi de la Vicaria), scritta da Giuseppe Rizzotto
e Gaetano Mosca.   L'opera dove si citava sempre 
la parola "mafiosi"  e  mai "mafia", raccontava le 
gesta di un detenuto al quale si sottomettevano tut-
ti gli altri rinchiusi nelle segrete della Vicaria, il fa-
migerato carcere che per volere dei Borboni fu rim-
piazzato nella metà dell'Ottocento dall'Ucciardone.
Ma agli atti, negli archivi dello Stato italiano, è  il
rapporto Gualterio che resta il punto di riferimento
storico: l'origine della mafia come mafia. Il suo re-
soconto al ministro dell'Interno e al capo del governo
Alfonso La Marmora  già individuano  l'essenza  di 
quell'organizzazione dove non c'erano solo "malfat-
tori" ma anche "molti proprietari"  che stavano al
fianco "della malandrineria  colla quale  molti rap-
porti avevano avuto svariati partiti".  Poi incideva 
sul documento quella fatidica parola: "La cosiddet-
ta Maffia". Sempre scritta in maiuscolo.
L'analisi del marchese-prefetto, seppur inevitabil-
mente approssimativa, neanche un quarto di seco-
lo dopo -siamo nel 1889 - era già stata dimenticata
sotto una montagna di "ragionamenti" e di difese
a oltranza della Sicilia e sull'onore dei siciliani.

Lucianone