23 maggio '15 - sabato
LA PAROLA MAFIA
fu scritta 150 anni fa per la prima volta
su un documento ufficiale. E purtroppo
divenne Storia. visione post - 35
(da 'la domenica' di Repubblica - 10 aprile 2015 /
di Attilio Bolzoni)
E' la parola italiana più famosa al mondo. Più di
pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari
e nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia
incerta - deriva da maha^fat^, espressione araba
che vuol dire immunità? Da un antico termine to-
scano che indicava ostentazione e boria? - fino
al secondo dopoguerra si scriveva e si pronuncia-
va con due "effe". All'anagrafe, e non è certo un
caso, è vecchia quasi quanto lo Stato unitario.
Ma di sicuro c'era già prima, anche se nessuno
le aveva ancora dato un nome. Un fascicolo pre-
fettizio non ha mai fatto la storia, però quello che
il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato
al ministro dell'Interno del Regno Giovanni Lanza
si è rivelato un segnatempo decisamente importan-
te: indica la data esatta di quando la Mafia ha co-
minciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni
fa. Documento con tanto di bollo e stemma con
croce sabauda, viva il Re e viva l'Italia. Era il 25
aprile del 1865.
Nata nell'agro palermitano e negli assolati feudi
della Sicilia centrale, questa parola che ha attra-
versato tante vicende politiche e criminali della
nostra nazione non ha avuto sempre lo stesso si-
gnificato. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Un
secolo fa rappresentava qualcosa, dopo l'ucci-
sione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
un'altra cosa, un'altra ancora oggi. Ma è stato
quel giorno, il 25 aprile, che la Maffia - che poi
si trasformerà in Mafia - è entrata formalmen-
te e sinistramente nel nostro vocabolario.
Le prime notizie suk'esistenza di certe canaglie,
"oltre cento, di diverso rango, le quali erano riu-
nite in fermo giuramento di non rivelare mai la
circostanza delle loro operazioni a costo della
vita", risalgono al 1828 e ne ha riferito uno sco-
nosciuto magistrato di Agrigento descrivendo
un'organizzazione criminale che aveva radici
fra Cattolica, Cianciana e Santo Stefano di
Quisquina. Dieci anni dopo, nel 1838, il procu-
ratore della gran Corte Criminale di Trapani
Pietro Calà Ulloa denunciava che "vi ha in molti
pasi delle unioni o fratellanze, specie di sette che
si dicono partiti, senz'altro legame che quello del-
la dipendenza di un capo che qui è un possidente,
là un arciprete... sono tante specie di piccoli go-
verni nel governo". Ma fu solo il prefetto di Palermo,
il marchese Gualterio, in quella primavera del 1865 -
Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque an-
ni prima - ad avvisare "di un grave e prolungato ma-
linteso fra il Paese e l'Autorità", annunciando il peri-
colo che "la cosiddetta Maffia od associazione ma-
landrinesca potesse crescere in audacia, e che, d'al-
tra parte, il Governo si trovasse senza la debita au-
torità morale per chiedere il necessario appoggio
alla numerosa classe di cittadini più influenti per
senso di autorità". Tratteniamo il respiro per un
momento e riflettiamoci: centocinquanta anni dopo
è cambiato veramente qualcosa?".
Comunque sia e la si voglia vedere , da quel giorno
in poi, in Italia, di mafia non si è più smesso di par-
larne e straparlarne. Prima e dopo Caporetto, nel-
l'era del Duce, nella Prima e nella Seconda Repub-
blica, a Caltanisetta e ad Aosta, a Portella della
Ginestra e nella Milano "da bere", nella Corleone
di Totà Riina e con Renato Schifani sullo scranno
più alto del Senato. E passando naturalmente per
l'immarcescibile Giulio Andreotti e il più "corsaro"
Silvio Berlusconi.
Illustrazione tratta dal quotidiano 'L'Ora' relativa al
processo - scaturito grazie al rapporto Sangiorgi - di
Palermo del maggio 1901
TUTTO E' COMINCIATO quel 25 aprile di un secolo
e mezzo fa anche se, in verità, un paio di anni prima,
per le strade e i teatrini popolari di Palermo era an-
data in scena una commedia dialettale in tre atti (I
mafiosi de la Vicaria), scritta da Giuseppe Rizzotto
e Gaetano Mosca. L'opera dove si citava sempre
la parola "mafiosi" e mai "mafia", raccontava le
gesta di un detenuto al quale si sottomettevano tut-
ti gli altri rinchiusi nelle segrete della Vicaria, il fa-
migerato carcere che per volere dei Borboni fu rim-
piazzato nella metà dell'Ottocento dall'Ucciardone.
Ma agli atti, negli archivi dello Stato italiano, è il
rapporto Gualterio che resta il punto di riferimento
storico: l'origine della mafia come mafia. Il suo re-
soconto al ministro dell'Interno e al capo del governo
Alfonso La Marmora già individuano l'essenza di
quell'organizzazione dove non c'erano solo "malfat-
tori" ma anche "molti proprietari" che stavano al
fianco "della malandrineria colla quale molti rap-
porti avevano avuto svariati partiti". Poi incideva
sul documento quella fatidica parola: "La cosiddet-
ta Maffia". Sempre scritta in maiuscolo.
L'analisi del marchese-prefetto, seppur inevitabil-
mente approssimativa, neanche un quarto di seco-
lo dopo -siamo nel 1889 - era già stata dimenticata
sotto una montagna di "ragionamenti" e di difese
a oltranza della Sicilia e sull'onore dei siciliani.
Lucianone
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