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domenica 14 settembre 2014
Fotografia - Riccardo Scibetta
Mostre - anno 2011 visione post - 18
L'altra Londra di Riccardo Scibetta
Una mostra ambientata nella notte londinese
in cui ogni fotogramma balza fuori all'improvviso,
squarciando il buio. E rivelando la doppia faccia
del mondo, la sua ambiguità, con immagini che
si alternano e si sovrappongono.
E' "Underground" di Riccardo Scibetta, brianzolo
del 1970 e siciliano d'adozione, che nella galleria
romana Officine Fotografiche di via Libetta (fino
al 15 giugno 2011) ha realizzato dieci lightbox di
grande effetto , sovrapponendo due immagini du-
rante lo scatto, per raccontare un'altra Londra.
Le sue foto non sono mai solo ciò che mostrano,
ma lasciano scorgere dell'altro, e altrove. Come
"Il militare", una delle guardie della Regina, dalla
cui impettita uniforme traspare il misero scheletro
e che indossa un copricapo di pelle di lupo come
fosse un cavallo tenuto al morso. Lo stesso lupo
ringhiante il cui muso esplode dal volto di Elisa-
betta II ne "La Regina", l'altra metà del distico,
trasformando la sua gaia 'mise' giallo canarino
in un lampo d'orrore. C'è ironia e denuncia so-
ciale nelle scatole luminose di Scibetta quando
sovrappone un cimitero a tutta la Swinging Lon-
don racchiusa nella vecchia cabina del telefono,
quella rossa, accanto a cui dorme un giovane
homeless. C'è la realtà underground, che è tutto,
e tutt'altro, in ogni istante
(da 'L'Espresso' - 23 giugno 2011 - Passioni)
"Il militare"
Continua... to be continued...
domenica 31 agosto 2014
Lo scrittore di culto Wilbur Smith
Lo scrivere è una follia:
parola di Wilbur Smith, che racconta
come lavorare a un libro sia una specie
di ossessione, ma parla anche del suo
grande amore per l'Africa.
(da 'l'Espresso' - 23 giugno 2011 - Sabina
Minardi a colloquio con W. Smith) visione post - 61
Scrivere un libro è un segreto che neppure il più
smaliziato degli editori sa spiegare. Essere un ca-
polista seriale delle classifiche con la felicità del
caso non c'entra più.
Wilbur Smith è il primo a negare che esista la
formula magica del successo. Ma la miscela che
impiega da anni è un'arma micidiale: trame avven-
turose nutrite da passioni estreme; il gusto di com-
plicare la vita a tutti i personaggi, senza occhio di
riguardo per nessuno; la dedizione e l'erudizione
per rimuovere, uno dopo l'altro, gli ostacoli. Risul-
tato: romanzi popolari di qualità. Il gusto antico
del raccontare, sostenuto dall'istinto del giornali-
sta (è nato in Rhodesia del Nord, l'attuale Zambia
e per anni ha fatto il cronista, poi per volere del
padre il ragioniere): che annota i dettagl, fiuta le
piste, traccia architetture narrative intricate.
Lo sfondo cambia, ma il format resta. E a 78 anni
di età ci si può permettere il lusso di accantonare
i perimetri di saghe storiche e mitologiche come
quelle egizie, dei Ballantyne e dei Courtney. Per
affrontare materie più scabrose: le regole tribali,
la sharia, il medioevo contemporaneo del fonda-
mentalismo islamico. Combinati con l'attualità di
un Occidente nemico, al Qaeda, la corsa al petro-
lio dietro le quinte di tutti i conflitti.
"La legge del deserto" (Longanesi) diventa così un
romanzo politico, che dà a Smith non solo il merito
di aver scritto un libro da grandi emozioni, ma anche
il testo giusto per il tempo giusto...
Wilbur Addison Smith
(nato a Broken Hill il 9 gennaio 1933, è uno scrittore zambiano)
La giornalista Sabina Minardi pone a W. Smith
alcune domande che, tra l'altro, riguardano anche
le motivazioni per la stesura del romanzo 'La legge
del deserto'.
Sabina Minardi -'Perchè ha deciso di occuparsi di
attualità?'.
Wilbur Smith - "Perchè è il nostro presente, e credo
che un lettore trovi un interesse in più nel leggere un
libro con elementi che rimandano alla sua vita. I per-
sonaggi mi ronzavano in testa da un pezzo. In più, co-
nosco bene quella parte d'Africa in cui ho ambientato
una parte della storia; ho posseduto un'isola nelle
Seychelles.
S. Minardi - 'Il destino del nord Africa è in ridefinizio-
ne. Come pensa che guerre e rivolte in corso ne rimo-
delleranno il futuro?'.
W. Smith - "Credo che sia utopistico pensare che
governi pienamente democratici e laici possano in-
staurarsi in tempi brevi. Nelle nazioni islamiche c'è
un governo presieduto da un uomo solo sin dai tem-
pi di Maometto. Immaginare una forma di governo
parlamentare all'occidentale mi sembra chiedere
troppo".
S. Minardi - 'Parliamo di altri suoi romanzi. C'è
sempre l'Africa. Cos'è l''Africa per lei?'.
W. Smith - "E' il battito del mio cuore. Ci sono nato,
ho vissuto in Afria. Conosco il continente molto bene,
l'ho attraversato in lungo e largo. L'ho studiato, ho
cacciato animali, mi sono anche appassionato al bird-
watching. Ma più di tutto penso che sia la gente d'A-
frica a renderla così eccitante. La diversità degli es-
seri umani, dai tootsie ai pigmei, insieme all'eredità
degli scrittori del passato, ne fanno un posto dove
c'è sempre qualcosa da scoprire".
S. Minardi - 'Lei viaggia molto, vive spesso all'estero.
Dov'è la sua casa?'.
W. Smith - "Ne ho una a Cape Town, una a Londra
e un'altra in Svizzera. Sono un africano nomade. Un
girovago del mondo".
S. Minardi - 'Torniamo alla sua infanzia africana. E'
lì che trae l'ispirazione?".
W. Smith - "Sì. Nacse lì il mio gusto dell'avventura.
Mi vengono in mente i safari con i miei genitori: ave-
vo tre anni, e a quei tempi non si viaggiava certo con
le macchine. Mi sistemavano in una specie di amaca,
alle estremità c'erano due africani che mitrasportava-
no a piedi. Ricordo esattamente il verso dei leoni
intorno alla tenda nella notte. E l'avventura, appunto:
quando i leoni mangiatori di uomini assalivano il cam-
po e gli uomini uscivano per ucciderli, la confusione,
l'oscurità, le corse in ogni direzione. Mio padre spara-
va, io lo spiavo".
S. Minardi - 'Immagini che rivivono nei suoi libri,
zeppi di uomini audaci, che sfidano gli animali, che
hanno relazioni con bellissime donne. Sono questi
caratteri forti a piacere ai lettori?'.
W. Smith - "In un romanzo la gente cerca due cose:
da una parte la possibilità di imparare qualcosa; dal-
l'altra, di evadere dalla propria esistenza, spesso no-
iosa e incolore, in una dimensione immaginifica".
S, Minardi - 'I suoi libri sono amatissimi dalle donne.
Nostalgia di identità che non ci sono più?'.
W. Smith - Credo che i miei libri, specie gli ultimi,
abbiano personaggi femminili molto forti, nei quali
le lettrici si possono identificare. D'altra parte, credo
che spesso queste signore comprino i miei libri per
mariti e figli. Magari alla fine li leggono anche loro".
S. Minardi - 'Crede che trasmettere la passione per la
lettura sia una prerogativa femminile?'.
W. Smith - "Sì. Quando ero bambino, non c'era la
tv e vivevamo in un contesto remoto. Andavamo nel-
la biblioteca della città ad affittare i libri, e ricordo
ancora il suono del vecchio telefono quando squillava:
mia madre correva a rispondere e se ci annunciavano
l'arrivo di un volume ordinato era una grande gioia.
Il momento più atteso della giornata era quello in cui
si andava a letto e mia madre leggeva una storia a me
e a mia sorella. L'amore per i libri in me è nato così:
da quelle scatole magiche, da cui venivano fuori sto-
rie meravigliose. E dal modo di raccontare di mia ma-
dre".
S. Minardi - 'Perchè è così amato in Italia?'.
W. Smith - "Non saprei. Nel mondo dei libri il
successo è imprevedibile. A volte un libro non
è particolarmente buono, eppure tutti voglio-
no leggerlo. Come per un film: talvolta la gente
corre a vederli solo per poterne parlare. Il pas-
saparola è determinante. Internet e social net-
work saranno sempre più influenti".
S. Minardi - 'E' vero che lei ha dei rituali prima
di cominciare un nuovo libro?'.
W. Smith - "Ce li avevo. Oggi comincio a scrivere
solo quando sono pronto.
CONTINUA...
to be continued...
parola di Wilbur Smith, che racconta
come lavorare a un libro sia una specie
di ossessione, ma parla anche del suo
grande amore per l'Africa.
(da 'l'Espresso' - 23 giugno 2011 - Sabina
Minardi a colloquio con W. Smith) visione post - 61
Scrivere un libro è un segreto che neppure il più
smaliziato degli editori sa spiegare. Essere un ca-
polista seriale delle classifiche con la felicità del
caso non c'entra più.
Wilbur Smith è il primo a negare che esista la
formula magica del successo. Ma la miscela che
impiega da anni è un'arma micidiale: trame avven-
turose nutrite da passioni estreme; il gusto di com-
plicare la vita a tutti i personaggi, senza occhio di
riguardo per nessuno; la dedizione e l'erudizione
per rimuovere, uno dopo l'altro, gli ostacoli. Risul-
tato: romanzi popolari di qualità. Il gusto antico
del raccontare, sostenuto dall'istinto del giornali-
sta (è nato in Rhodesia del Nord, l'attuale Zambia
e per anni ha fatto il cronista, poi per volere del
padre il ragioniere): che annota i dettagl, fiuta le
piste, traccia architetture narrative intricate.
Lo sfondo cambia, ma il format resta. E a 78 anni
di età ci si può permettere il lusso di accantonare
i perimetri di saghe storiche e mitologiche come
quelle egizie, dei Ballantyne e dei Courtney. Per
affrontare materie più scabrose: le regole tribali,
la sharia, il medioevo contemporaneo del fonda-
mentalismo islamico. Combinati con l'attualità di
un Occidente nemico, al Qaeda, la corsa al petro-
lio dietro le quinte di tutti i conflitti.
"La legge del deserto" (Longanesi) diventa così un
romanzo politico, che dà a Smith non solo il merito
di aver scritto un libro da grandi emozioni, ma anche
il testo giusto per il tempo giusto...
Wilbur Addison Smith
(nato a Broken Hill il 9 gennaio 1933, è uno scrittore zambiano)
La giornalista Sabina Minardi pone a W. Smith
alcune domande che, tra l'altro, riguardano anche
le motivazioni per la stesura del romanzo 'La legge
del deserto'.
Sabina Minardi -'Perchè ha deciso di occuparsi di
attualità?'.
Wilbur Smith - "Perchè è il nostro presente, e credo
che un lettore trovi un interesse in più nel leggere un
libro con elementi che rimandano alla sua vita. I per-
sonaggi mi ronzavano in testa da un pezzo. In più, co-
nosco bene quella parte d'Africa in cui ho ambientato
una parte della storia; ho posseduto un'isola nelle
Seychelles.
S. Minardi - 'Il destino del nord Africa è in ridefinizio-
ne. Come pensa che guerre e rivolte in corso ne rimo-
delleranno il futuro?'.
W. Smith - "Credo che sia utopistico pensare che
governi pienamente democratici e laici possano in-
staurarsi in tempi brevi. Nelle nazioni islamiche c'è
un governo presieduto da un uomo solo sin dai tem-
pi di Maometto. Immaginare una forma di governo
parlamentare all'occidentale mi sembra chiedere
troppo".
S. Minardi - 'Parliamo di altri suoi romanzi. C'è
sempre l'Africa. Cos'è l''Africa per lei?'.
W. Smith - "E' il battito del mio cuore. Ci sono nato,
ho vissuto in Afria. Conosco il continente molto bene,
l'ho attraversato in lungo e largo. L'ho studiato, ho
cacciato animali, mi sono anche appassionato al bird-
watching. Ma più di tutto penso che sia la gente d'A-
frica a renderla così eccitante. La diversità degli es-
seri umani, dai tootsie ai pigmei, insieme all'eredità
degli scrittori del passato, ne fanno un posto dove
c'è sempre qualcosa da scoprire".
S. Minardi - 'Lei viaggia molto, vive spesso all'estero.
Dov'è la sua casa?'.
W. Smith - "Ne ho una a Cape Town, una a Londra
e un'altra in Svizzera. Sono un africano nomade. Un
girovago del mondo".
S. Minardi - 'Torniamo alla sua infanzia africana. E'
lì che trae l'ispirazione?".
W. Smith - "Sì. Nacse lì il mio gusto dell'avventura.
Mi vengono in mente i safari con i miei genitori: ave-
vo tre anni, e a quei tempi non si viaggiava certo con
le macchine. Mi sistemavano in una specie di amaca,
alle estremità c'erano due africani che mitrasportava-
no a piedi. Ricordo esattamente il verso dei leoni
intorno alla tenda nella notte. E l'avventura, appunto:
quando i leoni mangiatori di uomini assalivano il cam-
po e gli uomini uscivano per ucciderli, la confusione,
l'oscurità, le corse in ogni direzione. Mio padre spara-
va, io lo spiavo".
S. Minardi - 'Immagini che rivivono nei suoi libri,
zeppi di uomini audaci, che sfidano gli animali, che
hanno relazioni con bellissime donne. Sono questi
caratteri forti a piacere ai lettori?'.
W. Smith - "In un romanzo la gente cerca due cose:
da una parte la possibilità di imparare qualcosa; dal-
l'altra, di evadere dalla propria esistenza, spesso no-
iosa e incolore, in una dimensione immaginifica".
S, Minardi - 'I suoi libri sono amatissimi dalle donne.
Nostalgia di identità che non ci sono più?'.
W. Smith - Credo che i miei libri, specie gli ultimi,
abbiano personaggi femminili molto forti, nei quali
le lettrici si possono identificare. D'altra parte, credo
che spesso queste signore comprino i miei libri per
mariti e figli. Magari alla fine li leggono anche loro".
S. Minardi - 'Crede che trasmettere la passione per la
lettura sia una prerogativa femminile?'.
W. Smith - "Sì. Quando ero bambino, non c'era la
tv e vivevamo in un contesto remoto. Andavamo nel-
la biblioteca della città ad affittare i libri, e ricordo
ancora il suono del vecchio telefono quando squillava:
mia madre correva a rispondere e se ci annunciavano
l'arrivo di un volume ordinato era una grande gioia.
Il momento più atteso della giornata era quello in cui
si andava a letto e mia madre leggeva una storia a me
e a mia sorella. L'amore per i libri in me è nato così:
da quelle scatole magiche, da cui venivano fuori sto-
rie meravigliose. E dal modo di raccontare di mia ma-
dre".
S. Minardi - 'Perchè è così amato in Italia?'.
W. Smith - "Non saprei. Nel mondo dei libri il
successo è imprevedibile. A volte un libro non
è particolarmente buono, eppure tutti voglio-
no leggerlo. Come per un film: talvolta la gente
corre a vederli solo per poterne parlare. Il pas-
saparola è determinante. Internet e social net-
work saranno sempre più influenti".
S. Minardi - 'E' vero che lei ha dei rituali prima
di cominciare un nuovo libro?'.
W. Smith - "Ce li avevo. Oggi comincio a scrivere
solo quando sono pronto.
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giovedì 28 agosto 2014
TEATRO - Festival teatrale di Edimburgo
visione post - 33
La più importante manifestazione estiva
nella città scozzese fino al 31 agosto
Tra cartellone ufficiale e Fringe, in questa
edizione abbondano gli spettacoli ispirati
al conflitto mondiale.
(da 'la Repubblica' - 17 /08/'14 - CultSpettacoli /
Rodolfo Di Giammarco)
A Edimburgo si raccontano
le guerre di ieri e di oggi
In che rapporto sono arte e società a Edimburgo,
la più ampia piazza estiva mondiale di performance?
A 32 giorni dallo storico voto pro o contro l'indipen-
denza scozzese del 18 settembre non c'è granchè
segno di sfide tra secessionisti (tipo Sean Connery)
e unionisti (tipo Judy Dench e Mick Jagger) nelle
affollatissime strade, nei sempre gremiti teatri del
Festival Internazionale e nella calca popolare e gio-
vanile di sale e spazi del Fringe Festival.
La competizione più sentita è un'altra e sembra già
essere vinta: ormai la creatività, il motore di ricerca,
la presa generazionale, le presenze e gli oltre 1000
spettacoli di scena parlata/fisica e di danza del
Fringe (mercato libero del nuovo, con alcuni decisi-
vi teatri leader, vedi il Traverse) alimentano un fe-
nomeno che spesso fa più clamore della vetrina in-
tellettuale - priva dell'equivalente dei nomi di culto
di anni fa - del Festival, il cui direttore australiano
Jonathan Mills passa le consegne per il 2015 al
al connazionale Fergus Linhean. Ciò non toglie che
molti fari si siano accesi sulla prima guerra mondia-
le e le guerre in genere, argomento caldo di questi
giorni.
Allora va detto di "The War" che, al Festival, è un
mosaico di rapsodie ad opera del regista (finalmen-
te) russo Vladimir Pankov alla guida della compa-
gnia moscovita SounDrama Studio. Lavoro fonda-
to su scritture di Richard Aldington e di Nikolai
Gumilyov, con dichiarati richiami all'Iliade, si trat-
ta d'una epopea virtuosistica, raffinata, idealistica,
anche brechtiana e catastrofica, che prte da un Go-
ta parigino del 1913 (con grnde lampadario a terra)
per misurarsi poi con i traumi bellici. Splendide im-
magini, con un'estetica primeggiante sull'etica.
A dare più peso a una morale irrisolvibile della vio-
lenza e a propendere per tecniche sperimentali ci
pensa, con un titolo a contrasto, "Small War" del-
l'olandese Valentin Dhaenens che al Fringe, al Tra-
verse Theatre, emoziona compostamente con un
uomo/nurse evocante pazienti incurabili o morti in
video, con parole che vanno da un discorso di Atti-
la a una testimonianza di una vittima recente in Af-
ghanistan. Il discorso guerresco del Festival ha in
serbo anche l'apologo "Ganesh versus the Third
Reich" dove la compagnia australiana Back to Back
mostra simbolicamente un elefantiaco dio Hindu che
reclama a Hitler (con sagoma alla Cattelan) l'esclu-
siva del proprio emblema di culto trasformato dai
nazisti in svastica, ma essendo quattro quinti del
cast composti da attori disabili, colpisce più di tutto
l'accusa rivolta alla platea "Siete venuti qui per ve-
dere uno freak show".
Sempre al Festival, strizza l'occhio alla Scozia la tri-
logia storiografica umanizzata "James I, James II
e James III" di Rona Munro, un totale di 7 ore e
mezza (coprodotto da National Theatre of Scotland
e National Theatre of Great Britain), che trasforma
in arena l'impianto, con banchetti, battaglie, talami,
parlamenti e omicidi dal 1421 al 1488, stile fiction,
potenti interpreti, e una magistrale Sofie Grabol.
Ma il conflitto più duro, il Festival lo propone nel-
l'installazione "vissuta" Exhibit B di Brett Bailey,
con una mostra impressionante di occhi mobili
sgranati da performer di colore in una galleria di
gabbie e orrori di cui è responsabile l'Occidente,
nei panni di gente castrata o di detenuti morti nei
respingimenti su moderni aerei. Da parte sua, il
Fringe concentra in modo autorevole il top della
minaccia e della mostrificazione delle guerre vir-
tuali future (smascherate da Edward Snowden) in
Light di George Mann, dove il controllo dei cer-
velli è questione di schegge di luce applicate o e-
stratte dalla testa, nel buio più assoluto: una mac-
china inimitabile, formidabile, deprecabile.
Lucianone
La più importante manifestazione estiva
nella città scozzese fino al 31 agosto
Tra cartellone ufficiale e Fringe, in questa
edizione abbondano gli spettacoli ispirati
al conflitto mondiale.
(da 'la Repubblica' - 17 /08/'14 - CultSpettacoli /
Rodolfo Di Giammarco)
A Edimburgo si raccontano
le guerre di ieri e di oggi
In che rapporto sono arte e società a Edimburgo,
la più ampia piazza estiva mondiale di performance?
A 32 giorni dallo storico voto pro o contro l'indipen-
denza scozzese del 18 settembre non c'è granchè
segno di sfide tra secessionisti (tipo Sean Connery)
e unionisti (tipo Judy Dench e Mick Jagger) nelle
affollatissime strade, nei sempre gremiti teatri del
Festival Internazionale e nella calca popolare e gio-
vanile di sale e spazi del Fringe Festival.
La competizione più sentita è un'altra e sembra già
essere vinta: ormai la creatività, il motore di ricerca,
la presa generazionale, le presenze e gli oltre 1000
spettacoli di scena parlata/fisica e di danza del
Fringe (mercato libero del nuovo, con alcuni decisi-
vi teatri leader, vedi il Traverse) alimentano un fe-
nomeno che spesso fa più clamore della vetrina in-
tellettuale - priva dell'equivalente dei nomi di culto
di anni fa - del Festival, il cui direttore australiano
Jonathan Mills passa le consegne per il 2015 al
al connazionale Fergus Linhean. Ciò non toglie che
molti fari si siano accesi sulla prima guerra mondia-
le e le guerre in genere, argomento caldo di questi
giorni.
Allora va detto di "The War" che, al Festival, è un
mosaico di rapsodie ad opera del regista (finalmen-
te) russo Vladimir Pankov alla guida della compa-
gnia moscovita SounDrama Studio. Lavoro fonda-
to su scritture di Richard Aldington e di Nikolai
Gumilyov, con dichiarati richiami all'Iliade, si trat-
ta d'una epopea virtuosistica, raffinata, idealistica,
anche brechtiana e catastrofica, che prte da un Go-
ta parigino del 1913 (con grnde lampadario a terra)
per misurarsi poi con i traumi bellici. Splendide im-
magini, con un'estetica primeggiante sull'etica.
A dare più peso a una morale irrisolvibile della vio-
lenza e a propendere per tecniche sperimentali ci
pensa, con un titolo a contrasto, "Small War" del-
l'olandese Valentin Dhaenens che al Fringe, al Tra-
verse Theatre, emoziona compostamente con un
uomo/nurse evocante pazienti incurabili o morti in
video, con parole che vanno da un discorso di Atti-
la a una testimonianza di una vittima recente in Af-
ghanistan. Il discorso guerresco del Festival ha in
serbo anche l'apologo "Ganesh versus the Third
Reich" dove la compagnia australiana Back to Back
mostra simbolicamente un elefantiaco dio Hindu che
reclama a Hitler (con sagoma alla Cattelan) l'esclu-
siva del proprio emblema di culto trasformato dai
nazisti in svastica, ma essendo quattro quinti del
cast composti da attori disabili, colpisce più di tutto
l'accusa rivolta alla platea "Siete venuti qui per ve-
dere uno freak show".
Sempre al Festival, strizza l'occhio alla Scozia la tri-
logia storiografica umanizzata "James I, James II
e James III" di Rona Munro, un totale di 7 ore e
mezza (coprodotto da National Theatre of Scotland
e National Theatre of Great Britain), che trasforma
in arena l'impianto, con banchetti, battaglie, talami,
parlamenti e omicidi dal 1421 al 1488, stile fiction,
potenti interpreti, e una magistrale Sofie Grabol.
Ma il conflitto più duro, il Festival lo propone nel-
l'installazione "vissuta" Exhibit B di Brett Bailey,
con una mostra impressionante di occhi mobili
sgranati da performer di colore in una galleria di
gabbie e orrori di cui è responsabile l'Occidente,
nei panni di gente castrata o di detenuti morti nei
respingimenti su moderni aerei. Da parte sua, il
Fringe concentra in modo autorevole il top della
minaccia e della mostrificazione delle guerre vir-
tuali future (smascherate da Edward Snowden) in
Light di George Mann, dove il controllo dei cer-
velli è questione di schegge di luce applicate o e-
stratte dalla testa, nel buio più assoluto: una mac-
china inimitabile, formidabile, deprecabile.
Lucianone
Cultura - Il premio Nobel Desmond Tutu
LA CONFESSIONE
DEL PREMIO NOBEL
Desmond Tutu
"Perdono mio padre, il Sudafrica
e me stesso" visioni post - 45
(da 'la Repubblica' - R2 Cultura / 27 marzo 2014)
di
Desmond Tutu
Ci sono state moltissime sere , quando ero bambino,
in cui dovetti assistere senza poter fare nulla a mio
padre che insultava e picchiava mia madre. Ricordo
ancora l'odore di alcol, vedo ancora la paura negli
occhi di mia madre e sento ancora la disperazione
infinita che proviamo quando vediamo persone che
amiamo farsi del male a vicenda in modi che non
riusciamo a comprendere. E' un'esperienza che
non augurerei a nessuno, e meno che mai a un
bambino.
Vedo il viso di mia madre e vedo questo essere umano
gentile, che amavo tantissimo e che non aveva fatto
nulla per meritarsi la sofferenza che le veniva in-
flitta. Quando rievoco questa storia, mi rendo conto
di quanto sia difficile perdonare veramente. A livel-
lo intellettuale, so che mio padre causava sofferenza
perchè lui stesso soffriva. A livello spirituale, so che
la mia fede mi dice che mio padre merita di essere
perdonato come Dio perdona tutti noi.
Ma è comunque difficile. I traumi a cui abbiamo
assistito o che abbiamo sperimentato vivono nei
nostri ricordi.Perfino a distanza di anni, possono
causarci nuovo dolore ogni volta che li rievochia-
mo.
Se scambiassi la mia vita con quella di mio padre,
se avessi provato le tensioni e le pressioni che provò
lui, se avessi dovuto sopportare i fardelli che provò
lui, mi sarei comportato come si è comportato lui?
Non lo so. La mia speranza è che sarei stato diver-
so, ma non lo so.
Mio padre è morto da molto tempo, ma se oggi potessi
parlargli vorrei dirgli che lo avevo perdonato. Che co-
sa gli direi? Comincerei ringraziandolo per tutte le
cose meravigliose che faceva per me come padre, ma
poi gli direi che c'è questa cosa che mi faceva molto
male. Gli direi quanto mi feriva quello che faceva a
mia madre, quanto mi faceva soffrire.
Forse mi ascolterebbe fino in fondo, forse no. Ma
comunque lo perdonerei.
Il perdono richiede pratica, sincerità, apertura men-
tale e disponibilità (anche se faticosa) a provare. Non
è semplice. Forse avete giù provato a perdonare qual-
cuno e non ci siete riusciti. Forse avete perdonato e
la persona perdonata non ha dimostrato rimorso, nè
ha modificato il suo comportamento o ammesso i suoi
torti, e voi vi trovate di nuovo a non riuscire a perdo-
nare. E' perfettamente normale voler fare del male
quando si è subito del male. Ma restituire male per
male raramente dà soddisfazione. Pensiamo che ci
darà soddisfazione, ma non è così.
Negli anni '60, il Sudafrica era nella morsa del-
l'apartheid. Quando il Governo promulgò il Bantu
Education Act, istituendo un sistema scolastico di
grado inferiore per i bambini neri, io e Leah smet-
temmo di insegnare in segno di protesta. Giuram-
mo che avremmo fatto tutto quello che era in no-
stro potere per garantire che i nostri figli non fos-
sero mai sottoèposti a quel lavaggio del cervello
che in Sudafrica spacciavano per istruzione.
Iscrivemmo i nostri figli nelle scuole del confinante
Swaziland. Sei volte all'anno percorrevamo in auto
i quasi mille chilometri che separano Alice, nella
provincia del Capo Orientale, da Krugersdorp, vici-
no Johannesburg, dove vivevano i miei genitori.
Dopo aver trascorso la notte da loro, guidavamo
altre cinque ore fino allo Swaziland, lasciavamo
o prendevamo i bambini alle rispettive scuole e
tornavamo a Krugersdorp per fare tappa, prima
le lungo viaggio di ritorno verso casa. Non c'e-
ra nessun albergo o locanda che accettasse clien-
ti neri, per nessun prezzo.
Durante uno di questi viaggi, mio padre mi disse che
voleva parlare. Io ero sfinito. Eravamo a metà del
viaggio e avevamo guidato 10 ore per lasciare i bam-
bini a scuola. Il sonno si faceva sentire. Avevamo an-
cora altre 15 ore di viaggio da fare per tornare a casa
nostra, ad Alice. Guidare attraverso il Karoo, la va-
sta distesa semideserta al centro del Sudafrica, era
sempre sfiancante. Dissi a mio padre che ero stanco
e avevo mal di testa. "Parleremo domani mattina",
gli dissi. Andammo nella casa della madre di Leah,
a mezz'ora da lì. Il mattino dopo, mia nipote venne
a svegliarci con la notizia che mio padre era morto.
Ero sconvolto dal dolore. Amavo molto mio padre
e anche se il suo carattere mi causava grandi sof-
ferenze, c'era in lui molto amore, saggezza, intel-
ligenza. E poi c'era il senso di colpa. Con la sua
morte improvvisa non avrei mai potuto ascoltare
quello che voleva dirmi. Forse aveva un gran pe-
so sul cuore che voleva rimuovere? Forse voleva
chiedere scusa per le angherie che aveva inflitto
a mia madre quando ero bambino? Non lo saprò
mai. Mi ci sono voluti moltissimi anni per perdo-
narmi per la mia insensibilità, per non aver fatto
omaggio a mio padre un'ultima volta di quei po-
chi istanti che voleva condividere con me. Il
senso di colpa mi brucia ancora.
Quando ripenso a quegli anni lontani, alle sue
sfuriate da ubriaco, mi rendo conto che non era
solo con lui che ero arrabbiato. Ero arrabbiato
con me stesso. Rannicchiato in un angolo, spa-
ventato, non ero in grado di fronteggiare mio
padre e proteggere mia madre. E così, a molti
anni di distanza, mi rendo conto che non devo
perdonare solo mio padre, devo perdonare me
stesso.
Una vita umana è uno splendido intreccio di
bontà, bellezza, crudeltà, sofferenza, indiffe-
renza, amore e tantissimo altro. Tutti noi pos-
sediamo le caratteristiche di fondo della natura
umana, e dunque a volte siamo generosi e a vol-
te egoisti, a volte siamo premurosi e a volte scon-
siderati, a volte siamo gentili e a volte crudeli.
Questa non è un'opinione, è un fatto.
Nessuno nacse bugiardo, o stupratore, o terro-
rista. Nessuno nasce pieno di odio. Nessuno nasce
pieno di violenza. Nessuno nasce con meno gloria
o meno bontà di voi o di me. Ma ogni giorno, in
ogni situazione, in ogni dolorosa esperienza di vi-
ta, questa gloria e questa bontà possono essere di-
menticate, messe in ombra, perdute. E' facile farci
soffrire, distruggerci, ed è bene ricordarsi che è al-
trettanto facile essere quelli che fanno soffrire e
distruggono.
La semplice verità è che tutti commettiamo degli
errori e tutti abbiamo bisogno di essere perdonati.
Non esiste una bacchetta magica da agitare per
tornare indietro nel tempo e cambiare quello che
è successo o cancellare il male che è stato fatto,
ma possiamo fare tutto quello che è in nostro po-
tere per correggere le cose che sono state fatte
male. Possiamo sforzarci di fare in modo che il
male non accada di nuovo.
in modo sconsiderato, egoista o crudele. Ma nes-
suna azione è imperdonabile, nessuna persona è
irredimibile. Eppure non è facile ammettere i
propri torti e chiedere perdono. "Ti chiedo scusa"
sono forse le tre parole più difficili da pronuncia-
re.
Continua... to be continued...
lunedì 11 agosto 2014
VIAGGI - Percorso ad anello, verso il fiume Ticino
11 agosto '14 visione post - 33
Viaggio in bici
Sull'argine del Ticino,
pedalando tra aironi e cicogne
(da la RepubblicaMilano - 3 /8 /'14
Milano d'Estate / Valeria Cerabolini)
Noi bici della Bassa lo sappiamo bene. Il mattino
ha l'oro in bocca. Meno traffico, meno afa, meno
zanzare. Si parte presto. Ma un anello è un anello
e offre libertà di scelta: lo si prende da dove si vuole.
Per bellezza del paesaggio e tranquillità, scegliamo
Bereguardo, paesino sulla Milano-Genova: 15 mi-
nuti al massimo nel baule dell'auto, ma posso anche
viaggiare in treno e, quindi, partire da Pavia.-
Questa volta siamo qui: seguiamo l'indicazione Ponte
in Chiatte o Ponte delle Barche, a pochi metri dal car-
tello delle Cascine Orsine, sotto una bella rana che se
la ride, perchè vive tra risaie e campi senza diserbanti.
E qui le mie ruote si mettono in movimento in sciol-
tezza e se la godono senza fatica: la strada va legger-
mente in discesa in un vialone di giganteschi alberi
secolari. - Sulla destra, passiamo l'Hotel De La Ville
dove si fanno subito incontri interessanti, con due
ruote super accessoriate che arrivano anche da Pae-
si lontani. Sono tenaci viaggiatrici che non conosco-
no la fatica. Ecco, due bei tornanti nel verde, ci illu-
diamo per poco di poter essere ovunque, anche tra le
montagne. Mi invade un senso di libertà totale.
Sfruttiamo la pendenza e prendiamo velocità ed ecco-
ci al Ticino. Con tutta questa pioggia, scende carico
d'acqua. Attenzione però al fondo del ponte: tra le as-
si in legno potrebbe nascondersi qualche chiodo.
Ponte superato, ora la strada diventa dritta e posso
conquistarmi a poco a poco una bella andatura. Basta
seguire l'indicazione Zerbolò e attorno c'è solo la cam-
gna con i campi di mais, fitti di piante che stanno per
arrivare alla massima altezza e nascondono le brutture
che anche qui gli umani hanno portato a compimento.
Alla rotonda teniamo la sinistra, tra meravigliose ca-
scine lasciate andare a favore di villette da geometrie
tutte uguali. Passiamo il cimitero e non possiamo fa-
re a meno di sfidare l'aggeggio che ci sta davanti per
il controllo della velocità delle quattro ruote. Sembra
quasi un videogioco: 24, 25, 26. Forza ancora: 27, 28,
29. E vai: 30 chilometri all'ora. Sì, segna 30. Questa
volta ce l'ho fatta. Mi sento orgogliosa. Giusto il tem-
po per non perdersi lo spettacolo di quel gigantesco
nido in cima al palo della luce, gioiello di architettura
temporanea, fatto da cicogne che puntuali ogni anno
tornano qua. Attraversiamo Zerbolò, mesto paesino
tagliato in due dall'autostrada. Non sono più sola:
altre due ruote si sono risvegliate. Partono i gruppet-
ti di quelle tirate a lucido, manco fossero in pista. Ci
finisco in mezzo. Mi viene qualche complesso, quelle
non pesano nulla. Ma mi consolo, in fondo, anche se
sono un pò agée, sono pur sempre una Colnago nera.
Insomma, una certa classe la conservo, con quell'aria
vintage. Mi seminano velocemente e posso riconqui-
stare la pace. Ancora campagna, ancora cascine, ora
conservate alla perfezione.
Ecco, l'indicazione Pavia 11 chilometri. Svoltiamo a
sinistra, e inizia l'incanto. Siamo sull'argine che co-
steggia il fiume. A tratti non si vedono case. Si in-
contrano meravigliosi elegantissimi aironi, lanche
con pacifiche papere. mentre in lontananza si muove
un'inquietante nutria che non vorrei mai mi attraver-
sasse la strada. Se i miei copertoni me lo concedesse-
ro, potrei abbandonare l'asfalto e buttarmi in riva al
fiume. Ecco, un altro gruppo di quelle belle compe-
titive che si avvicina. Mi prende alle spalle. Parte
un invito in gergo: "Attaccati!". Ma non sono in
vena di sfide: declino e proseguo per i fatti miei.
La pace è impareggiabile. Anche perchè dura an-
cora poco. Mi tocca un pezzo di città, con quei
noiosi stop and go, e tante quattro ruote a darmi
fastidio. Ancora un ponte, questa volta massiccio,
visto che si chiama addirittura Ponte dell'Impero.
cicogne con nido
aironi sulla riva del fiume
Siamo a Pavia, viale della Libertà, ecco la fascistissima
statua della Minerva e si gira a sinistra. Ancora tutto
dritto. A poco a poco la città è alle spalle. Direzione
Torre d'Isola. E prima di raggiungere il paesino, da-
vanti a noi campi infiniti e montagne sullo sfondo.
Sono tentata da una sosta, sotto i platani della Lo-
canda di Torre d'Isola. Ma tiro dritto. Mi fermerò
ad anello concluso. Direzione Vigna del Pero e
rieccoci al punto di partenza a Bereguardo. Comincio
a rivedere le bici che avevo incrociato nell'altra dire-
zione. Il bello dell'anello è rincontrarsi.
Lucianone
.
Viaggio in bici
Sull'argine del Ticino,
pedalando tra aironi e cicogne
(da la RepubblicaMilano - 3 /8 /'14
Milano d'Estate / Valeria Cerabolini)
Noi bici della Bassa lo sappiamo bene. Il mattino
ha l'oro in bocca. Meno traffico, meno afa, meno
zanzare. Si parte presto. Ma un anello è un anello
e offre libertà di scelta: lo si prende da dove si vuole.
Per bellezza del paesaggio e tranquillità, scegliamo
Bereguardo, paesino sulla Milano-Genova: 15 mi-
nuti al massimo nel baule dell'auto, ma posso anche
viaggiare in treno e, quindi, partire da Pavia.-
Questa volta siamo qui: seguiamo l'indicazione Ponte
in Chiatte o Ponte delle Barche, a pochi metri dal car-
tello delle Cascine Orsine, sotto una bella rana che se
la ride, perchè vive tra risaie e campi senza diserbanti.
E qui le mie ruote si mettono in movimento in sciol-
tezza e se la godono senza fatica: la strada va legger-
mente in discesa in un vialone di giganteschi alberi
secolari. - Sulla destra, passiamo l'Hotel De La Ville
dove si fanno subito incontri interessanti, con due
ruote super accessoriate che arrivano anche da Pae-
si lontani. Sono tenaci viaggiatrici che non conosco-
no la fatica. Ecco, due bei tornanti nel verde, ci illu-
diamo per poco di poter essere ovunque, anche tra le
montagne. Mi invade un senso di libertà totale.
Sfruttiamo la pendenza e prendiamo velocità ed ecco-
ci al Ticino. Con tutta questa pioggia, scende carico
d'acqua. Attenzione però al fondo del ponte: tra le as-
si in legno potrebbe nascondersi qualche chiodo.
Ponte superato, ora la strada diventa dritta e posso
conquistarmi a poco a poco una bella andatura. Basta
seguire l'indicazione Zerbolò e attorno c'è solo la cam-
gna con i campi di mais, fitti di piante che stanno per
arrivare alla massima altezza e nascondono le brutture
che anche qui gli umani hanno portato a compimento.
Alla rotonda teniamo la sinistra, tra meravigliose ca-
scine lasciate andare a favore di villette da geometrie
tutte uguali. Passiamo il cimitero e non possiamo fa-
re a meno di sfidare l'aggeggio che ci sta davanti per
il controllo della velocità delle quattro ruote. Sembra
quasi un videogioco: 24, 25, 26. Forza ancora: 27, 28,
29. E vai: 30 chilometri all'ora. Sì, segna 30. Questa
volta ce l'ho fatta. Mi sento orgogliosa. Giusto il tem-
po per non perdersi lo spettacolo di quel gigantesco
nido in cima al palo della luce, gioiello di architettura
temporanea, fatto da cicogne che puntuali ogni anno
tornano qua. Attraversiamo Zerbolò, mesto paesino
tagliato in due dall'autostrada. Non sono più sola:
altre due ruote si sono risvegliate. Partono i gruppet-
ti di quelle tirate a lucido, manco fossero in pista. Ci
finisco in mezzo. Mi viene qualche complesso, quelle
non pesano nulla. Ma mi consolo, in fondo, anche se
sono un pò agée, sono pur sempre una Colnago nera.
Insomma, una certa classe la conservo, con quell'aria
vintage. Mi seminano velocemente e posso riconqui-
stare la pace. Ancora campagna, ancora cascine, ora
conservate alla perfezione.
Ecco, l'indicazione Pavia 11 chilometri. Svoltiamo a
sinistra, e inizia l'incanto. Siamo sull'argine che co-
steggia il fiume. A tratti non si vedono case. Si in-
contrano meravigliosi elegantissimi aironi, lanche
con pacifiche papere. mentre in lontananza si muove
un'inquietante nutria che non vorrei mai mi attraver-
sasse la strada. Se i miei copertoni me lo concedesse-
ro, potrei abbandonare l'asfalto e buttarmi in riva al
fiume. Ecco, un altro gruppo di quelle belle compe-
titive che si avvicina. Mi prende alle spalle. Parte
un invito in gergo: "Attaccati!". Ma non sono in
vena di sfide: declino e proseguo per i fatti miei.
La pace è impareggiabile. Anche perchè dura an-
cora poco. Mi tocca un pezzo di città, con quei
noiosi stop and go, e tante quattro ruote a darmi
fastidio. Ancora un ponte, questa volta massiccio,
visto che si chiama addirittura Ponte dell'Impero.
cicogne con nido
aironi sulla riva del fiume
Siamo a Pavia, viale della Libertà, ecco la fascistissima
statua della Minerva e si gira a sinistra. Ancora tutto
dritto. A poco a poco la città è alle spalle. Direzione
Torre d'Isola. E prima di raggiungere il paesino, da-
vanti a noi campi infiniti e montagne sullo sfondo.
Sono tentata da una sosta, sotto i platani della Lo-
canda di Torre d'Isola. Ma tiro dritto. Mi fermerò
ad anello concluso. Direzione Vigna del Pero e
rieccoci al punto di partenza a Bereguardo. Comincio
a rivedere le bici che avevo incrociato nell'altra dire-
zione. Il bello dell'anello è rincontrarsi.
.
sabato 2 agosto 2014
Musica / jazz - Sonny Rollins: un sopravvissuto
2 agosto 2014 visione post - 151
Quando Sonny Rollins
lo volevano gli Stones
Intervista a una leggenda, vivente,
della musica e del jazz.
"Dio quant'era bella Billie quella sera. E sì,
fu lo zio Bird (Charlie Parker) a farmi smet-
tere con l'eroina. Quanto all'oggi, ho il mio
seguito e mi basta".
(da 'la Repubblica' - 8 giugno 2014 - Giuseppe Videtti)
Il giorno dell'attacco alle Torri era in casa, pochi
metri da Ground Zero. L'appartamento al ventesimo
piano fu invaso dalla polvere, una notte d'incubo sen-
za energia elettrica ad aspettare i soccorsi, neanche
il telefono per chiamare la moglie Lucille che era ri-
masta nella casa di Germantown, pochi chilometri da
Manhattan. I ricordi più cari erano stati irrimediabil-
mente distrutti dai veleni sprigionati dal crollo quando
la mattina dopo arrivarono i soccorsi. I vigili del fuoco
gli dissero che per lui non c'era posto, che doveva as-
pettare l'arrivo di un altro veicolo. "E' perchè sono
nero, vero?", sbottò Sonny Rollins. "Ebbi - come si
dice in gergo psicanalitico? - una regressione", rac-
conta il sassofonista, ottantatrè anni, il più illustre
sopravvissuto della storia del jazz. "Dopotutto non
erano lontani i tempi in cui io e mia moglie avevamo
deciso di trasferirci in campagna perchè i matrimoni
tra neri e bianchi erano guardati di traverso anche a
New York". Lucille, compagna e manager di una vi-
ta, è morta nel 2004, ma la vedovanza non ha piega-
to il gigante del sax. Vive in una casa più comoda
vicino Woodstock e si comporta come se di anni ne
avesse trenta. Dischi, concerti, una casa discogra-
fica (la Doxy Records) che ha appena pubblicato il
magnifico Road Shows Volume 3, un sito internet
aggiornatissimo, mille progetti nell'aria. "Mi aiuta-
no yoga e meditazione, ho incominciato a interes-
sarmi a buddismo e sufismo intorno al 1959, quan-
do con John Coltrane parlavamo per ore di filoso-
fie orientali".
Barba e capelli bianchi, l'aspetto ancora imponente,
sul palcoscenico il colosso di sempre, nella vita una
torre di saggezza. Difficile immaginarlo devastato
dall'eroina, detenuto nella prigione di Rikers Island
per furto a mano armata e successivamente, sprona-
to da Charlie Parker, a Lexington con un gruppo di
tossicodipendenti in riabilitazione sperimentale col
metadone - e tra una disavventura e l'altra suonare
da Dio nel quintetto di Miles Davis. "Fui così stupido
da pensare che senza droga non avrei mai suonato
come Charlie Parker", ammette oggi. Vivo, vegeto,
mai fuori moda, neanche quando il rock rese la vita
impossibile ai jazzisti. I Rolling Stones, anzi, lo sup-
plicarono per averlo nell'album Tattoo You. Avrebbe
potuto sfruttare la situazione, invece non volle nean-
che essere citato sulle note di copertina. "Me ne
vergognavo, lo feci per compiacere mia moglie Lu-
cille, che era una loro fan. Suonai tre brani a patto
che non si sapesse in giro. Poi Mick Jagger mi ri-
chiamò, voleva che andassi in tour con loro. Rifiu-
tai categoricamente. Cosa abbiamo in comune?".
Giuseppe Videtti - 'Lei è nato nel ghetto nero di
Manhattan. Come fu trovarsi al centro della cul-
tura afroamericana in piena Harlem Renaissance?'
S. Rollins - "E' stata la cosa più meravigliosa che
potesse succedermi perchè mi ritrovai in fasce al
centro della musica: Fats Waller, Jimmy Lunceford,
Count Basie, Cab Calloway, Louis Jordan - fu lui il
primo a farmi sognare : un giorno suonerò il sasso-
fono come Louis, dicevo - Duke Ellington. Frequen-
tavo coetanei che sarebbero diventati giganti del
jazz : il batterista Art Taylor, il pianista Kenny Drew,
il sassofonista Jackie McLean. Sono cresciuto nel po-
sto giusto al momento giusto".
G. Videtti - 'Racconta che fu un concerto di Sinatra a
East Harlem a cambiarle la vita. Cosa ricorda di quel
giorno?'.
S. Rollins - "Frequentavo una scuola multirazziale,
un edificio nuovo di zecca frequentato da ragazzi
neri, ebrei e italiani. I fenomeni di bullismo erano
all'ordine del giorno, gli episodi di violenza sempre
più brutali e frequenti. Un bel giorno alla Benjamin
Franklin High School arrivò Sinatra: si girava un do-
cumentario per favorire l'integrazione. Era il 1945,
avevo quattordici anni. "Ragazzi, fatela finita, ba-
sta farvi del male, fate qualcosa di buono nella vita,
tutto questo non vi porterà da nessuna parte, dob-
biamo vivere insieme, questa è l'America", disse
prima di cantare The House I Live In - che anni do-
po avrei inserito nel mio repertorio. Da quel mo-
mento è diventato il mio idolo".
G. Videtti - 'Ha suonato con artisti come Charlie
Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, John Col-
trane e Miles Davis. Riuscì a stabiulire con tutti
un rapporto di amicizia?'.
S. Rollins - "Abbiamo trascorso insieme anni me-
morabili, condividendo praticamente tutto. Monk
ha un posto speciale nei ricordi, l'ho sempre con-
siderato il mio guru. Ricordo quando ci si incon-
trava a casa sua. ho ancora a mente l'indirizzo.
243 West 63esima Street. Anche John Coltrane,
che conobbi più tardi, contribuì non poco alla mia
crescita artistica e spirituale. Stavamo dando inizio
a un nuovo movimento musicale, il be-bop, cui mol-
ti erano ostili. Ma noi eravamo un plotone che mar-
ciava all'unisono. Inarrestabile. Imbattibile".
G. Videtti - 'Com'era la routine del jazzista? Duris-
sima e pericolosa come abbiamo letto nelle biogra-
fie di Charlie Parker e Chet Baker?'.
S. Rollins - "Soldi in tasca non ne avevamo ma vo-
glia di suonare tanta. Gli impresari si rendevano
conto che l'avremmo fatto anche gratis. Traevano
profitto dalla nostra passione. Suonavamo soprat-
tutto nei night club, posti dove la gente andava a
ballare, finchè non arrivò Norman Granz (il fonda-
tore dell'etichetta Verve, ndr) e istituì "Jazz at
the Philharmonic", aprendo a tutti noi le porte di
istituzioni prestigiose come la Carmegie Hall.
Tutto merito della rivoluzione del be-bop".
G. Videtti - 'Miles Davis la chiamò a far parte del suo
quintetto; era un leader esigente e bellicoso come
raccontano?'.
contano?
S. Rollins - "Ci gelava dicendo: 'Non perdiamoci in
chiacchiere, se siete qui sapete già cosa dovete fare'.
Miles non mi ha mai detto cosa e come dovessi suo-
nare, dava la linea e si aspettava che lo seguissi.
Con lui eri un artista libero".
G. Videtti - 'Poi sarebbero arrivati dischi leggenda-
ri a suo nome, come Saxophone Colossus e Tenor
Madness'...
S. Rollins - "La carriera andava a gonfie vele, la vita
un pò meno. Alcol e eroina avevano preso il soprav-
vento. La vera svolta fu quando collaborai con Clifford
Brown e Max Roach, nel 1955. Chissà come si sareb-
be evoluta la nostra storia se Clifford non fosse morto
pochi mesi dopo in quell'incidente, un genio strappa-
to al jazz a 25 anni: senza Clifford e Max non sarei
mai arrivato a Saxophone Colossus, alla collabora-
zione con Coltrane in Tenor Madness e a quel concer-
to stellare alla Carnagie Hall, nel 1957; c'erano anche
Monk, Billie Holiday e Ray Charles. Quella notte il
jazz uscì dal recinto. Quant'era bella Billie! La adora-
vo. E quanto è stata maltrattata. E sa perchè? Perchè
lottava per i diritti civili, non certo perchè faceva uso
di droghe. - Tanti artisti bianchi erano eroinomani,
Judy Garlan ad esempio, e non mi risulta che siano
mai stati crocifissi come Lady Day".
G. Videtti - 'Quanto era frustrante veder riconosciuto
il proprio talento al punto da esibirsi nel tempio della
musica classica e al contempo essere discriminato per
il colore della pelle?'.
S. Rollins - "Con quel problema avevo convissuto fin
da bambino. Mia nonna predicava instancabilmente
per i diritti civili, mi portava con sè in strada a prote-
stare, armata di megafono e di cartelli. Per questo ho
sempre mantenuto stretti contatti con l'Africa; già nel
1954 avevo scritto e inciso (per il quartetto di Miles
Davis) 'Airegin', che vuol dire Nigeria al contrario. Il
messaggio era: non vogliamo più essere trattati come
schiavi".
G. Videtti - 'Come ha vissuto l'elezione di Barack
Obama?'.
S. Rollins - "Avere un presidente di colore è un fatto
epocale per gli Stati Uniti, ma Obama non è abbastan-
za a sinistra per il ragazzo della Benjamin Franklin
High School che ha inciso con Max Roacn l'album
'Freedom Suite'. La sua politica non è radicale come
vorrei".
G. Videtti - 'Cosa gli ha detto quando nel 2011 le ha
conferito la National Medal of Arts and Humanities?'.
S. Rollins - "Gli ho confessato di non aver votato per
lui. Mi ha risposto: lo immaginavo, conosco bene la
sua musica".
G. Videtti - 'Ma scusi, e per chi ha votato?'
S. Rollins - "Per Dennis Kucinich (bianco, ndr), l'ex
sindaco di Cleveland, politicamente molto più in li-
nea col mio pensiero".
G. Videtti - 'Lei è nell'Olimpo del jazz con Davis,
Coltrane e Parker. Cosa vede quando si guarda
indietro?'.
S. Rollins - "Ricordo i tempi duri, quando mi drogavo
e finii in carcere in mezzo ai delinquenti comuni. Tra
il 1949 e il 1951 la mia vita fu un inferno, con una ter-
ribile ricaduta nel 1953. Fu quello l'anno in cui Charlie
Parker, proprio perchè ne conosceva le conseguenze
nefaste, mi spinse a farla finita con l'eroina. Ero impe-
gnato in alcune registrazioni con lui e Miles. Bird mi
chiese se ancora mi drogassi, e io mentii, dissi che
ero pulito. Ma lui seppe da altri che c'ero ancora den-
tro fino al collo. Mi bastò una sua occhiata - era come
uno zio per tutti noi - per decidere all'istante di darci
un taglio. L'anno della risalita fu proprio quello, il
1953".
G. Videtti - 'Oltre sessantacinque anni di carriera e
ancora on the road: è stato difficile adattare il suo
linguaggio a generazioni diverse?'.
S. Rollins - "Fortunatamente mi sono sempre consi-
derato un musicista incompiuto, mai portavoce di una
generazione nè un veterano del be-bop. Ho il mio se-
guito e mi basta, non ho mai pensato di poter diventa-
re milionario facendo jazz. Altrimenti sarei andato in
tour con gli Stones".
Sonny Rollins ha suonato con:
Babs Gonzales -
Rollins debutta in "Weird Lullaby" ('49) del
pioniere del vocalese. Imperdibile la versione
di 'Stompin at the Savoy'.
Bud Powell -
Col leggendario pianista incise le session
"The Amazing Bud Powell": con, tra gli
altri, Fats Navarro, Tommy Potter e Roy
Haynes.
J.J. Johnson -
Collabora col trombettista nel 1949
("Jazz Quartets") e poi nel 1957 ("Sonny
Rollins Vol. 2") per la Blue Note.
Miles Davis
Lunga la loro collaborazione: in "Dig" (1951),
"Collectors' Items" (1956), "Miles Davis and
Horns" ('56), "Bags' Groove".
CONTINUA... to be continued...
Quando Sonny Rollins
lo volevano gli Stones
Intervista a una leggenda, vivente,
della musica e del jazz.
"Dio quant'era bella Billie quella sera. E sì,
fu lo zio Bird (Charlie Parker) a farmi smet-
tere con l'eroina. Quanto all'oggi, ho il mio
seguito e mi basta".
(da 'la Repubblica' - 8 giugno 2014 - Giuseppe Videtti)
Il giorno dell'attacco alle Torri era in casa, pochi
metri da Ground Zero. L'appartamento al ventesimo
piano fu invaso dalla polvere, una notte d'incubo sen-
za energia elettrica ad aspettare i soccorsi, neanche
il telefono per chiamare la moglie Lucille che era ri-
masta nella casa di Germantown, pochi chilometri da
Manhattan. I ricordi più cari erano stati irrimediabil-
mente distrutti dai veleni sprigionati dal crollo quando
la mattina dopo arrivarono i soccorsi. I vigili del fuoco
gli dissero che per lui non c'era posto, che doveva as-
pettare l'arrivo di un altro veicolo. "E' perchè sono
nero, vero?", sbottò Sonny Rollins. "Ebbi - come si
dice in gergo psicanalitico? - una regressione", rac-
conta il sassofonista, ottantatrè anni, il più illustre
sopravvissuto della storia del jazz. "Dopotutto non
erano lontani i tempi in cui io e mia moglie avevamo
deciso di trasferirci in campagna perchè i matrimoni
tra neri e bianchi erano guardati di traverso anche a
New York". Lucille, compagna e manager di una vi-
ta, è morta nel 2004, ma la vedovanza non ha piega-
to il gigante del sax. Vive in una casa più comoda
vicino Woodstock e si comporta come se di anni ne
avesse trenta. Dischi, concerti, una casa discogra-
fica (la Doxy Records) che ha appena pubblicato il
magnifico Road Shows Volume 3, un sito internet
aggiornatissimo, mille progetti nell'aria. "Mi aiuta-
no yoga e meditazione, ho incominciato a interes-
sarmi a buddismo e sufismo intorno al 1959, quan-
do con John Coltrane parlavamo per ore di filoso-
fie orientali".
Barba e capelli bianchi, l'aspetto ancora imponente,
sul palcoscenico il colosso di sempre, nella vita una
torre di saggezza. Difficile immaginarlo devastato
dall'eroina, detenuto nella prigione di Rikers Island
per furto a mano armata e successivamente, sprona-
to da Charlie Parker, a Lexington con un gruppo di
tossicodipendenti in riabilitazione sperimentale col
metadone - e tra una disavventura e l'altra suonare
da Dio nel quintetto di Miles Davis. "Fui così stupido
da pensare che senza droga non avrei mai suonato
come Charlie Parker", ammette oggi. Vivo, vegeto,
mai fuori moda, neanche quando il rock rese la vita
impossibile ai jazzisti. I Rolling Stones, anzi, lo sup-
plicarono per averlo nell'album Tattoo You. Avrebbe
potuto sfruttare la situazione, invece non volle nean-
che essere citato sulle note di copertina. "Me ne
vergognavo, lo feci per compiacere mia moglie Lu-
cille, che era una loro fan. Suonai tre brani a patto
che non si sapesse in giro. Poi Mick Jagger mi ri-
chiamò, voleva che andassi in tour con loro. Rifiu-
tai categoricamente. Cosa abbiamo in comune?".
Giuseppe Videtti - 'Lei è nato nel ghetto nero di
Manhattan. Come fu trovarsi al centro della cul-
tura afroamericana in piena Harlem Renaissance?'
S. Rollins - "E' stata la cosa più meravigliosa che
potesse succedermi perchè mi ritrovai in fasce al
centro della musica: Fats Waller, Jimmy Lunceford,
Count Basie, Cab Calloway, Louis Jordan - fu lui il
primo a farmi sognare : un giorno suonerò il sasso-
fono come Louis, dicevo - Duke Ellington. Frequen-
tavo coetanei che sarebbero diventati giganti del
jazz : il batterista Art Taylor, il pianista Kenny Drew,
il sassofonista Jackie McLean. Sono cresciuto nel po-
sto giusto al momento giusto".
G. Videtti - 'Racconta che fu un concerto di Sinatra a
East Harlem a cambiarle la vita. Cosa ricorda di quel
giorno?'.
S. Rollins - "Frequentavo una scuola multirazziale,
un edificio nuovo di zecca frequentato da ragazzi
neri, ebrei e italiani. I fenomeni di bullismo erano
all'ordine del giorno, gli episodi di violenza sempre
più brutali e frequenti. Un bel giorno alla Benjamin
Franklin High School arrivò Sinatra: si girava un do-
cumentario per favorire l'integrazione. Era il 1945,
avevo quattordici anni. "Ragazzi, fatela finita, ba-
sta farvi del male, fate qualcosa di buono nella vita,
tutto questo non vi porterà da nessuna parte, dob-
biamo vivere insieme, questa è l'America", disse
prima di cantare The House I Live In - che anni do-
po avrei inserito nel mio repertorio. Da quel mo-
mento è diventato il mio idolo".
Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, John Col-
trane e Miles Davis. Riuscì a stabiulire con tutti
un rapporto di amicizia?'.
S. Rollins - "Abbiamo trascorso insieme anni me-
morabili, condividendo praticamente tutto. Monk
ha un posto speciale nei ricordi, l'ho sempre con-
siderato il mio guru. Ricordo quando ci si incon-
trava a casa sua. ho ancora a mente l'indirizzo.
243 West 63esima Street. Anche John Coltrane,
che conobbi più tardi, contribuì non poco alla mia
crescita artistica e spirituale. Stavamo dando inizio
a un nuovo movimento musicale, il be-bop, cui mol-
ti erano ostili. Ma noi eravamo un plotone che mar-
ciava all'unisono. Inarrestabile. Imbattibile".
G. Videtti - 'Com'era la routine del jazzista? Duris-
sima e pericolosa come abbiamo letto nelle biogra-
fie di Charlie Parker e Chet Baker?'.
S. Rollins - "Soldi in tasca non ne avevamo ma vo-
glia di suonare tanta. Gli impresari si rendevano
conto che l'avremmo fatto anche gratis. Traevano
profitto dalla nostra passione. Suonavamo soprat-
tutto nei night club, posti dove la gente andava a
ballare, finchè non arrivò Norman Granz (il fonda-
tore dell'etichetta Verve, ndr) e istituì "Jazz at
the Philharmonic", aprendo a tutti noi le porte di
istituzioni prestigiose come la Carmegie Hall.
Tutto merito della rivoluzione del be-bop".
G. Videtti - 'Miles Davis la chiamò a far parte del suo
quintetto; era un leader esigente e bellicoso come
raccontano?'.
contano?
S. Rollins - "Ci gelava dicendo: 'Non perdiamoci in
chiacchiere, se siete qui sapete già cosa dovete fare'.
Miles non mi ha mai detto cosa e come dovessi suo-
nare, dava la linea e si aspettava che lo seguissi.
Con lui eri un artista libero".
G. Videtti - 'Poi sarebbero arrivati dischi leggenda-
ri a suo nome, come Saxophone Colossus e Tenor
Madness'...
S. Rollins - "La carriera andava a gonfie vele, la vita
un pò meno. Alcol e eroina avevano preso il soprav-
vento. La vera svolta fu quando collaborai con Clifford
Brown e Max Roach, nel 1955. Chissà come si sareb-
be evoluta la nostra storia se Clifford non fosse morto
pochi mesi dopo in quell'incidente, un genio strappa-
to al jazz a 25 anni: senza Clifford e Max non sarei
mai arrivato a Saxophone Colossus, alla collabora-
zione con Coltrane in Tenor Madness e a quel concer-
to stellare alla Carnagie Hall, nel 1957; c'erano anche
Monk, Billie Holiday e Ray Charles. Quella notte il
jazz uscì dal recinto. Quant'era bella Billie! La adora-
vo. E quanto è stata maltrattata. E sa perchè? Perchè
lottava per i diritti civili, non certo perchè faceva uso
di droghe. - Tanti artisti bianchi erano eroinomani,
Judy Garlan ad esempio, e non mi risulta che siano
mai stati crocifissi come Lady Day".
il proprio talento al punto da esibirsi nel tempio della
musica classica e al contempo essere discriminato per
il colore della pelle?'.
S. Rollins - "Con quel problema avevo convissuto fin
da bambino. Mia nonna predicava instancabilmente
per i diritti civili, mi portava con sè in strada a prote-
stare, armata di megafono e di cartelli. Per questo ho
sempre mantenuto stretti contatti con l'Africa; già nel
1954 avevo scritto e inciso (per il quartetto di Miles
Davis) 'Airegin', che vuol dire Nigeria al contrario. Il
messaggio era: non vogliamo più essere trattati come
schiavi".
G. Videtti - 'Come ha vissuto l'elezione di Barack
Obama?'.
S. Rollins - "Avere un presidente di colore è un fatto
epocale per gli Stati Uniti, ma Obama non è abbastan-
za a sinistra per il ragazzo della Benjamin Franklin
High School che ha inciso con Max Roacn l'album
'Freedom Suite'. La sua politica non è radicale come
vorrei".
G. Videtti - 'Cosa gli ha detto quando nel 2011 le ha
conferito la National Medal of Arts and Humanities?'.
S. Rollins - "Gli ho confessato di non aver votato per
lui. Mi ha risposto: lo immaginavo, conosco bene la
sua musica".
G. Videtti - 'Ma scusi, e per chi ha votato?'
S. Rollins - "Per Dennis Kucinich (bianco, ndr), l'ex
sindaco di Cleveland, politicamente molto più in li-
nea col mio pensiero".
G. Videtti - 'Lei è nell'Olimpo del jazz con Davis,
Coltrane e Parker. Cosa vede quando si guarda
indietro?'.
S. Rollins - "Ricordo i tempi duri, quando mi drogavo
e finii in carcere in mezzo ai delinquenti comuni. Tra
il 1949 e il 1951 la mia vita fu un inferno, con una ter-
ribile ricaduta nel 1953. Fu quello l'anno in cui Charlie
Parker, proprio perchè ne conosceva le conseguenze
nefaste, mi spinse a farla finita con l'eroina. Ero impe-
gnato in alcune registrazioni con lui e Miles. Bird mi
chiese se ancora mi drogassi, e io mentii, dissi che
ero pulito. Ma lui seppe da altri che c'ero ancora den-
tro fino al collo. Mi bastò una sua occhiata - era come
uno zio per tutti noi - per decidere all'istante di darci
un taglio. L'anno della risalita fu proprio quello, il
1953".
G. Videtti - 'Oltre sessantacinque anni di carriera e
ancora on the road: è stato difficile adattare il suo
linguaggio a generazioni diverse?'.
S. Rollins - "Fortunatamente mi sono sempre consi-
derato un musicista incompiuto, mai portavoce di una
generazione nè un veterano del be-bop. Ho il mio se-
guito e mi basta, non ho mai pensato di poter diventa-
re milionario facendo jazz. Altrimenti sarei andato in
tour con gli Stones".
Babs Gonzales -
Rollins debutta in "Weird Lullaby" ('49) del
pioniere del vocalese. Imperdibile la versione
di 'Stompin at the Savoy'.
Bud Powell -
Col leggendario pianista incise le session
"The Amazing Bud Powell": con, tra gli
altri, Fats Navarro, Tommy Potter e Roy
Haynes.
J.J. Johnson -
Collabora col trombettista nel 1949
("Jazz Quartets") e poi nel 1957 ("Sonny
Rollins Vol. 2") per la Blue Note.
Miles Davis
Lunga la loro collaborazione: in "Dig" (1951),
"Collectors' Items" (1956), "Miles Davis and
Horns" ('56), "Bags' Groove".
CONTINUA... to be continued...
martedì 15 luglio 2014
Cultura - Lo scrittore americano John Grisham e la sua America
15 luglio '14 visione post - 33
La critica all'America
in un'intervista rilasciata da John Grisham
in occasione dell'uscita del suo legal thriller
"L'ombra del sicomoro".
Dice Grisham: 'Il denaro in politica è così
invasivo da corrompere tutto: ecco perchè
Washington non cambierà mai".
(da 'la Repubblica' - 12 dicembre 2013 - R2Cultura /
Federico Rampini, New York)
Processo la mia America - Paese senza innocenza
"Prenda pure appunti, ma se registra è ancora
meglio. Sa, l'ultima volta che sono finito sulla
stampa italiana mi hanno fatto dire strane cose
sul processo di Amanda Knox". L'esordio sembra
circospetto, ma è soltanto un'apparenza.
John Grisham è un uomo del profondo Sud: caloroso,
passionale, battagliero come può esserlo un progres-
sista cresciuto nelle terre del Ku Klux Klan. Pronto
a scendere in campo per le cause che gli stanno
a cuore: contro la pena di morte, Guantanamo, o
il razzismo che rinasce sotto nuove spoglie.
Lo intercetto in un suo breve passaggio a New York,
metropoli esotica per lui che vive in campagna, tra
la Virginia e una fattoria vittoriana del Mississipi,
stile Via col vento. Appena uscito, il suo nuovo ro-
manzo "L'ombra del sicomoro" (edito in Italia da
Mondadori) è balzato in testa ai best-seller del New
York Times. E questa non è una sorpresa per l'in-
ventore del filone dei legal-thriller: a 58 anni, Gri-
sham appartiene all'esclusivo trio di autori capaci
di vendere due milioni di copie alla prima tiratura
(gli altri sono Tom Clancy e J.K. Rowling).
Da quando smise di fare l'avvocato per dedicarsi alla
letteratura, ha venduto quasi 300 milioni di libri nel
mondo, e molti sono diventati film d'autore (Il socio
di Sidney Pollack, Il rapporto Pelikan di Alan Paku-
la, L'uomo della pioggia di Francis Ford Coppola).
Non fa scalpore il suo successo ma il fatto che per
la prima volta Grisham abbia creato un "sequel"
ripescando l'avvocato protagonista del suo primo
libro, Jake Brigance, personaggio autobiografico.
E' sul tavolo di Jake che arriva il testamento esplo-
sivo di un ricco industriale del Sud, morto suicida
impiccandosi a un sicomoro. Il magnate disereda
i suoi familiari per lasciare quasi tutto a una do-
mestica nera.
Iohn Grisham
INTERVISTA
F. Rampini - 'Un personaggio del romanzo dice
"nel Mississipi, tutto ruota attorno alla razza". E'
ancora vero nell'America di Barack Obama? L'idea
di una nazione pacificata, post-razziale, si rivela illu-
soria?'.
J. Grisham - Non credo che l'America sarà mai
post-razziale. Nella nostra storia c'è lo schiavismo,
il più grande peccato originale dell'America. Cer-
to, neppure il più ottimista dei liberal avrebbe im-
maginato l'elezione di un presidente nero, ancora
qualche decennio fa. E invece Obama è arrivato,
quasi all'improvviso. L'ho votato due volte, e se
fosse possibile lo voterei pure una terza. Ma al
quinto anno di governo, capisco la frustrazione
di chi si aspettava cambiamenti superiori. E'
possibile cambiare il sistema in profondità a
Washington? Forse il ruolo del denaro nella
politica è così invasivo da corrompere tutto.
F. Rampini - 'Questo è un anno (2013) carico
di simbolismi: il cinquantenario della marcia
su Washington per i diritti civili dove Martin
Luther King pronunciò 'I have a dream', ora
la morte di Mandela. Eppure negli Stati del
Sud avanza una controffensiva per impedire
il voto dei neri'.
J. Grisham - Questa è una storia che conosco bene,
è la mia storia. Nelle mie terre del Sud ci si è battuti
cinquant'anni fa perchè i neri potessero votare. Nel-
l'anno in cui sono nato, il 1955, non un solo afro-
Attar
americano veniva eletto nel Mississipi. Oggi il Mis-
sissipi elegge più parlamentari neri di qualunque
altro Stato Usa. Ma i repubblicani, con l'aiuto del-
la Corte suprema, stanno insidiando i diritti delle
minoranze. In una nazione dove non esiste la carta
d'identità, s'inventano requisiti e controlli speciali
per l'accesso ai seggi elettorali, tutte barriere per
impedire che votino i più poveri.
F. Rampini - 'Lei dedica una parte dei suoi gua-
dagni alla fondazione "The Innocence Project".
Ci spieghi di cosa si tratta.
J. Grisham - Ci sono migliaia di innocenti nelle
carceri americane, e oggi abbiamo uno strumen-
to straordinario per liberarli: le analisi del Dna.
Attraverso The Innocence Project noi scegliamo
una dozzina di casi all'anno (purtroppo non pos-
siamo fare di più), otteniamo la revisione dei pro-
cessi sulla base delle nuove analisi scientifiche..
Abbiamo vinto 311 volte, 311 detenuti liberati:
sembrano tanti e invece sono appena la punta
dell'iceberg. E' gratificante soprattutto quando
sono condannati alla pena capitale: 130 di quei
prigionieri erano nel braccio della morte. Ma è
frustrante pensare alle altre migliaia che riman-
gono dentro, per delitti che non hanno commesso.
Anche qui la razza conta: molti dei detenuti che
vengono liberati grazie a The Innocence Project
sono ragazzi neri e poveri, guarda caso".
F. Rampini - 'Un altro suo intervento che suscitò
clamore fu su Guantanamo: quest'anno lei ha scrit-
to sul New York Times, in difesa di un prigioniero
nel supercarcere militare. C'è ancora qualcuno che
si ricorda di Guantanamo, in America?'.
J. Grisham - Quasi nessuno, eccetto i prigionieri
e le loro famiglie. Que che è impressionante, è che
diversi prigionieri sono stati rilasciati dopo anni,
con l'ammissione che non c'erano prove a loro ca-
rico. Io avevo creduto a Obama, quando promise
che avrebbe chiuso Guantanamo: questa è stata
una delle delusioni del presidente. Io mi sono preso
a cuore in particolare la sorte di un algerino, Nabil:
12 anni di carcere duro, con violenze e torture, non
una sola incriminazione. Sembra incredibile che il
nostro governo possa fare cose talmente orrende.
F. Rampini - 'Impariamo ogni giorno cose nuove
su quello che fa il governo, anche quando forse non
potrebbe. Di fronte alle rivelazioni sull'ampiezza
dello spionaggio dei cittadini (email, telefonate) da
parte della National Security Agency, lei è rimasto
sorpreso?'
J. Grisham - No, davvero, nè sorpreso nè imprepara-
to. Nulla di ciò che fanno la Nsa, la Cia o l'Fbi può
sorprendermi. Sono irritato, magari, ma non stupito.
Su questo devo dire che ho sentimenti contrastanti.
Non sono totalmente negativo. Quando Obama dice
che una cinquantina di attentati terroristici sono
stati scongiurati o prevenuti grazie allo spionaggio,
sono ben contento. E' vero che in giro ci sono terro-
risti decisi a tutto, pronti a fare esplodere palazzi e
a uccidere cittadini innocenti. E' sbagliato essere
ingenui, le regole del gioco ci impongono di paga-
re qualche prezzo in termini di sorveglianza. Al
tempo stesso, conoscendomi, se scoprissi che stan-
no intercettando le mie telefonate, so che la mia
reazione sarebbe di costituirmi parte civile.
F. Rampini - 'Lei ha inventato un genere, il thriller
legale, che ha imitatori in tutto il mondo. Perchè la
giustizia "romanzata" appassiona tanto i lettori?'
J. Grisham - E me lo chiede lei che viene dal paese
dei processi ad Amanda Knox e sulla Costa Concor-
dia?
F. Rampini - 'Facciamo una verifica sull'attendibi-
lità di Wikipedia. Alla voce John Grisham, in Ingle-
se, risulta che lei impiega sei mesi a scrivere un
romanzo. E il suo autore preferito sarebbe John Le
Carrè.'
J. Grisham - Vero e vero. Passate le vacanze di Na-
tale, il primo gennaio mi metterò a scrivere il prossi-
mo romanzo, aiutato dal freddo inverno e da tanto
caffè Lavazza. Il primo luglio il mio agente newyor-
chese riceverà il testo. In quanto a Le Carrè, tra i
suoi romanzi il mio preferito rimane La Tamburina.
ontinua... to be continued...
La critica all'America
in un'intervista rilasciata da John Grisham
in occasione dell'uscita del suo legal thriller
"L'ombra del sicomoro".
Dice Grisham: 'Il denaro in politica è così
invasivo da corrompere tutto: ecco perchè
Washington non cambierà mai".
(da 'la Repubblica' - 12 dicembre 2013 - R2Cultura /
Federico Rampini, New York)
Processo la mia America - Paese senza innocenza
"Prenda pure appunti, ma se registra è ancora
meglio. Sa, l'ultima volta che sono finito sulla
stampa italiana mi hanno fatto dire strane cose
sul processo di Amanda Knox". L'esordio sembra
circospetto, ma è soltanto un'apparenza.
John Grisham è un uomo del profondo Sud: caloroso,
passionale, battagliero come può esserlo un progres-
sista cresciuto nelle terre del Ku Klux Klan. Pronto
a scendere in campo per le cause che gli stanno
a cuore: contro la pena di morte, Guantanamo, o
il razzismo che rinasce sotto nuove spoglie.
Lo intercetto in un suo breve passaggio a New York,
metropoli esotica per lui che vive in campagna, tra
la Virginia e una fattoria vittoriana del Mississipi,
stile Via col vento. Appena uscito, il suo nuovo ro-
manzo "L'ombra del sicomoro" (edito in Italia da
Mondadori) è balzato in testa ai best-seller del New
York Times. E questa non è una sorpresa per l'in-
ventore del filone dei legal-thriller: a 58 anni, Gri-
sham appartiene all'esclusivo trio di autori capaci
di vendere due milioni di copie alla prima tiratura
(gli altri sono Tom Clancy e J.K. Rowling).
Da quando smise di fare l'avvocato per dedicarsi alla
letteratura, ha venduto quasi 300 milioni di libri nel
mondo, e molti sono diventati film d'autore (Il socio
di Sidney Pollack, Il rapporto Pelikan di Alan Paku-
la, L'uomo della pioggia di Francis Ford Coppola).
Non fa scalpore il suo successo ma il fatto che per
la prima volta Grisham abbia creato un "sequel"
ripescando l'avvocato protagonista del suo primo
libro, Jake Brigance, personaggio autobiografico.
E' sul tavolo di Jake che arriva il testamento esplo-
sivo di un ricco industriale del Sud, morto suicida
impiccandosi a un sicomoro. Il magnate disereda
i suoi familiari per lasciare quasi tutto a una do-
mestica nera.
Iohn Grisham
INTERVISTA
F. Rampini - 'Un personaggio del romanzo dice
"nel Mississipi, tutto ruota attorno alla razza". E'
ancora vero nell'America di Barack Obama? L'idea
di una nazione pacificata, post-razziale, si rivela illu-
soria?'.
J. Grisham - Non credo che l'America sarà mai
post-razziale. Nella nostra storia c'è lo schiavismo,
il più grande peccato originale dell'America. Cer-
to, neppure il più ottimista dei liberal avrebbe im-
maginato l'elezione di un presidente nero, ancora
qualche decennio fa. E invece Obama è arrivato,
quasi all'improvviso. L'ho votato due volte, e se
fosse possibile lo voterei pure una terza. Ma al
quinto anno di governo, capisco la frustrazione
di chi si aspettava cambiamenti superiori. E'
possibile cambiare il sistema in profondità a
Washington? Forse il ruolo del denaro nella
politica è così invasivo da corrompere tutto.
F. Rampini - 'Questo è un anno (2013) carico
di simbolismi: il cinquantenario della marcia
su Washington per i diritti civili dove Martin
Luther King pronunciò 'I have a dream', ora
la morte di Mandela. Eppure negli Stati del
Sud avanza una controffensiva per impedire
il voto dei neri'.
J. Grisham - Questa è una storia che conosco bene,
è la mia storia. Nelle mie terre del Sud ci si è battuti
cinquant'anni fa perchè i neri potessero votare. Nel-
l'anno in cui sono nato, il 1955, non un solo afro-
Attar
americano veniva eletto nel Mississipi. Oggi il Mis-
sissipi elegge più parlamentari neri di qualunque
altro Stato Usa. Ma i repubblicani, con l'aiuto del-
la Corte suprema, stanno insidiando i diritti delle
minoranze. In una nazione dove non esiste la carta
d'identità, s'inventano requisiti e controlli speciali
per l'accesso ai seggi elettorali, tutte barriere per
impedire che votino i più poveri.
F. Rampini - 'Lei dedica una parte dei suoi gua-
dagni alla fondazione "The Innocence Project".
Ci spieghi di cosa si tratta.
J. Grisham - Ci sono migliaia di innocenti nelle
carceri americane, e oggi abbiamo uno strumen-
to straordinario per liberarli: le analisi del Dna.
Attraverso The Innocence Project noi scegliamo
una dozzina di casi all'anno (purtroppo non pos-
siamo fare di più), otteniamo la revisione dei pro-
cessi sulla base delle nuove analisi scientifiche..
Abbiamo vinto 311 volte, 311 detenuti liberati:
sembrano tanti e invece sono appena la punta
dell'iceberg. E' gratificante soprattutto quando
sono condannati alla pena capitale: 130 di quei
prigionieri erano nel braccio della morte. Ma è
frustrante pensare alle altre migliaia che riman-
gono dentro, per delitti che non hanno commesso.
Anche qui la razza conta: molti dei detenuti che
vengono liberati grazie a The Innocence Project
sono ragazzi neri e poveri, guarda caso".
F. Rampini - 'Un altro suo intervento che suscitò
clamore fu su Guantanamo: quest'anno lei ha scrit-
to sul New York Times, in difesa di un prigioniero
nel supercarcere militare. C'è ancora qualcuno che
si ricorda di Guantanamo, in America?'.
J. Grisham - Quasi nessuno, eccetto i prigionieri
e le loro famiglie. Que che è impressionante, è che
diversi prigionieri sono stati rilasciati dopo anni,
con l'ammissione che non c'erano prove a loro ca-
rico. Io avevo creduto a Obama, quando promise
che avrebbe chiuso Guantanamo: questa è stata
una delle delusioni del presidente. Io mi sono preso
a cuore in particolare la sorte di un algerino, Nabil:
12 anni di carcere duro, con violenze e torture, non
una sola incriminazione. Sembra incredibile che il
nostro governo possa fare cose talmente orrende.
F. Rampini - 'Impariamo ogni giorno cose nuove
su quello che fa il governo, anche quando forse non
potrebbe. Di fronte alle rivelazioni sull'ampiezza
dello spionaggio dei cittadini (email, telefonate) da
parte della National Security Agency, lei è rimasto
sorpreso?'
J. Grisham - No, davvero, nè sorpreso nè imprepara-
to. Nulla di ciò che fanno la Nsa, la Cia o l'Fbi può
sorprendermi. Sono irritato, magari, ma non stupito.
Su questo devo dire che ho sentimenti contrastanti.
Non sono totalmente negativo. Quando Obama dice
che una cinquantina di attentati terroristici sono
stati scongiurati o prevenuti grazie allo spionaggio,
sono ben contento. E' vero che in giro ci sono terro-
risti decisi a tutto, pronti a fare esplodere palazzi e
a uccidere cittadini innocenti. E' sbagliato essere
ingenui, le regole del gioco ci impongono di paga-
re qualche prezzo in termini di sorveglianza. Al
tempo stesso, conoscendomi, se scoprissi che stan-
no intercettando le mie telefonate, so che la mia
reazione sarebbe di costituirmi parte civile.
F. Rampini - 'Lei ha inventato un genere, il thriller
legale, che ha imitatori in tutto il mondo. Perchè la
giustizia "romanzata" appassiona tanto i lettori?'
J. Grisham - E me lo chiede lei che viene dal paese
dei processi ad Amanda Knox e sulla Costa Concor-
dia?
F. Rampini - 'Facciamo una verifica sull'attendibi-
lità di Wikipedia. Alla voce John Grisham, in Ingle-
se, risulta che lei impiega sei mesi a scrivere un
romanzo. E il suo autore preferito sarebbe John Le
Carrè.'
J. Grisham - Vero e vero. Passate le vacanze di Na-
tale, il primo gennaio mi metterò a scrivere il prossi-
mo romanzo, aiutato dal freddo inverno e da tanto
caffè Lavazza. Il primo luglio il mio agente newyor-
chese riceverà il testo. In quanto a Le Carrè, tra i
suoi romanzi il mio preferito rimane La Tamburina.
ontinua... to be continued...
sabato 14 giugno 2014
Fotografia - Giles Duley e i profughi, soprattutto bambini, della Siria
14 giugno 2014 visione post - 28
Duley: 'Così dico no alla guerra'
Quei bimbi in bianco e nero in fuga dal dramma Siria
Gli scatti di Giles Duley nel campo
profughi di Za'atari, in Giordania.
E a tre anni dal conflitto l'appello
di 'Save The Children'.
(da la Repubblica - 10/03/2014 - Alessandra Baduel)
"Sono persone. Bambini, madri, padri, famiglie.
Chiamarli 'rifugiati' è quasi una difesa, per noi,
mette una distanza. Nelle mie foto ho cercato di
abolirla: di mostrare la similitudine che c'è fra
loro, costretti a vivere in un accampamento nel
deserto, lontani da una casa dove c'è la guerra,
e noi. Come ci sentiremmo, noi, al loro posto?".
Giles Duley è stato nel campo profughi di Za'
atari, nel deserto giordano vicino ai confini si-
riani, due settimane fa. Sabato prossimo (15 marzo
'14, ndr) saranno tre anni dall'inizio delle di-
mostrazioni in Siria, presto contrastate con l'e-
sercito e sfociate in guerra civile, ed è con le
fotografie di Duley che Save The Children, ope-
rativa nel campo fin dalla sua nascita nel luglio
del 2012 con aiuti umanitari e soprattutto edu-
cativi per bambini e ragazzi, ha voluto segnare
la data: tre anni di guerra e, solo a Za'atari, 450
siriani in fuga che arrivano ogni giorno. Metà
dei 100mila che vivono in camper e tende messi
in fila in mezzo al nulla hanno meno di 18 an-
ni e ben 26mila non arrivano ad averne cinque.
Almeno 700 sono nati lì, in quella che al momento
è la quinta città giordana per numero di abitanti.
A. Baduel - 'La sua impressione vivendo con loro nel campo?'.
G. Duley - "Che si tratta di persone normali,
appunto, che cercano il più possibile di fare la
vita di tutti i giorni, parlando con i vicini del
tempo, o dei ragazzi che sfuggono al controllo
e che vanno in giro con gli amici. Cose sempli-
ci, a dispetto del fatto che devono occuparsi di
come procurarsi cibo migliore, o i soldi per il
gas che purtroppo va pagato, o di stare attenti
a non sprecare l'acqua delle taniche. Si tratta
di organizzare l'intera famiglia e le sue esigen-
ze in una piccola tenda, ma loro cercano sempre
lo spazio per la normalità".
A. Baduel - 'Nel suo lavoro lei ha visto parecchi
altri campi profughi. C'è qualcosa che distingue
Za'atari?".
G. Duley - "Si tratta di persone di classe media,
non di poveri. Sono gente che fino a ieri era abi-
tuata a una società avanzata, per esempio con
una migliore assistenza sanitaria di quella che
trovano in Giordania: molte madri si lamentano
di questo. Molti sono avvocati, medici, profes-
sionisti. Di colpo si ritrovano in tenda, senza il
gas per scaldarsi e con molta paura addosso.
Certo sono anche gente forte, che non si scoraggia,
Sperano nella pace e pensano a quando torneranno
in Siria.
Bayan, 19 anni, Mariam 18 mesi - /credit: foto Giles Duley per Save The Children /
A. Baduel - 'I bambini, come li ha trovati?'
G. Duley - "Giocano, si divertono, vanno a scuola
con entusiasmo, ma stanno attenti a tutto: sanno be-
ne cosa succede, hanno perso amici e compagni di
studi che non sanno se rivedranno. Certo al campo
le scuole non sono ancora sufficienti per tutti, ma si
fanno i turni. E quella credo sia la cosa più importan-
te da garantire. Il rischio è che questa guerra produ-
ca un'intera generazione perduta. E' stato già detto,
ma vale la pena ripeterlo: va evitato a tutti i costi.
A. Baduel - 'Lei ha perso le gambe e un braccio per
colpa di un ordigno esploso sotto i suoi piedi, in Af-
ghanistan, mentre faceva il suo lavoro. Ma ha deci-
so di continuare'.
G. Duley - "La prima cosa che ho pensato, ripren-
dendo conoscenza, è stata: 'Ho la mano destra, ho
gli occhi, posso farcela: resto un fotografo'. Sono
anni che ho scelto di fare il narratore delle persone,
soprattutto degli esseri umani che vivono condizio-
ni critiche, cercando i punti di contatto, le similitudi-
ni con noi che guardiamo. Adesso, le mie nuove con-
dizioni fisiche mi permettono di avere una maggiore
empatia con i miei soggetti. Io da ferito volevo la
mia vita indietro, loro vogliono la stessa cosa".
A. Baduel - 'La sua foto preferita, fra quelle scattate
a Za'atari?'
G. Duley - "Il padre che carezza la sua bambina.
E' universale. potrebbe essere ovunque".
A. Baduel - 'Quel che l'ha più colpita , dei siriani che
vivono lì?".
G. Duley - "La forza d'animo. Sono persone positive,
non si lasciano andare: fanno progetti".
Dina, 38 anni e suo figlio Ryan, 2
Lucianone
G
Duley: 'Così dico no alla guerra'
Quei bimbi in bianco e nero in fuga dal dramma Siria
Gli scatti di Giles Duley nel campo
profughi di Za'atari, in Giordania.
E a tre anni dal conflitto l'appello
di 'Save The Children'.
(da la Repubblica - 10/03/2014 - Alessandra Baduel)
"Sono persone. Bambini, madri, padri, famiglie.
Chiamarli 'rifugiati' è quasi una difesa, per noi,
mette una distanza. Nelle mie foto ho cercato di
abolirla: di mostrare la similitudine che c'è fra
loro, costretti a vivere in un accampamento nel
deserto, lontani da una casa dove c'è la guerra,
e noi. Come ci sentiremmo, noi, al loro posto?".
Giles Duley è stato nel campo profughi di Za'
atari, nel deserto giordano vicino ai confini si-
riani, due settimane fa. Sabato prossimo (15 marzo
'14, ndr) saranno tre anni dall'inizio delle di-
mostrazioni in Siria, presto contrastate con l'e-
sercito e sfociate in guerra civile, ed è con le
fotografie di Duley che Save The Children, ope-
rativa nel campo fin dalla sua nascita nel luglio
del 2012 con aiuti umanitari e soprattutto edu-
cativi per bambini e ragazzi, ha voluto segnare
la data: tre anni di guerra e, solo a Za'atari, 450
siriani in fuga che arrivano ogni giorno. Metà
dei 100mila che vivono in camper e tende messi
in fila in mezzo al nulla hanno meno di 18 an-
ni e ben 26mila non arrivano ad averne cinque.
Almeno 700 sono nati lì, in quella che al momento
è la quinta città giordana per numero di abitanti.
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Didascalia: Manal 30 anni, Amjad 1 - /credit: foto Giles Duley per Save The Children / A. Baduel - 'La sua impressione vivendo con loro nel campo?'.
G. Duley - "Che si tratta di persone normali,
appunto, che cercano il più possibile di fare la
vita di tutti i giorni, parlando con i vicini del
tempo, o dei ragazzi che sfuggono al controllo
e che vanno in giro con gli amici. Cose sempli-
ci, a dispetto del fatto che devono occuparsi di
come procurarsi cibo migliore, o i soldi per il
gas che purtroppo va pagato, o di stare attenti
a non sprecare l'acqua delle taniche. Si tratta
di organizzare l'intera famiglia e le sue esigen-
ze in una piccola tenda, ma loro cercano sempre
lo spazio per la normalità".
A. Baduel - 'Nel suo lavoro lei ha visto parecchi
altri campi profughi. C'è qualcosa che distingue
Za'atari?".
G. Duley - "Si tratta di persone di classe media,
non di poveri. Sono gente che fino a ieri era abi-
tuata a una società avanzata, per esempio con
una migliore assistenza sanitaria di quella che
trovano in Giordania: molte madri si lamentano
di questo. Molti sono avvocati, medici, profes-
sionisti. Di colpo si ritrovano in tenda, senza il
gas per scaldarsi e con molta paura addosso.
Certo sono anche gente forte, che non si scoraggia,
Sperano nella pace e pensano a quando torneranno
in Siria.
Bayan, 19 anni, Mariam 18 mesi - /credit: foto Giles Duley per Save The Children /
A. Baduel - 'I bambini, come li ha trovati?'
G. Duley - "Giocano, si divertono, vanno a scuola
con entusiasmo, ma stanno attenti a tutto: sanno be-
ne cosa succede, hanno perso amici e compagni di
studi che non sanno se rivedranno. Certo al campo
le scuole non sono ancora sufficienti per tutti, ma si
fanno i turni. E quella credo sia la cosa più importan-
te da garantire. Il rischio è che questa guerra produ-
ca un'intera generazione perduta. E' stato già detto,
ma vale la pena ripeterlo: va evitato a tutti i costi.
A. Baduel - 'Lei ha perso le gambe e un braccio per
colpa di un ordigno esploso sotto i suoi piedi, in Af-
ghanistan, mentre faceva il suo lavoro. Ma ha deci-
so di continuare'.
G. Duley - "La prima cosa che ho pensato, ripren-
dendo conoscenza, è stata: 'Ho la mano destra, ho
gli occhi, posso farcela: resto un fotografo'. Sono
anni che ho scelto di fare il narratore delle persone,
soprattutto degli esseri umani che vivono condizio-
ni critiche, cercando i punti di contatto, le similitudi-
ni con noi che guardiamo. Adesso, le mie nuove con-
dizioni fisiche mi permettono di avere una maggiore
empatia con i miei soggetti. Io da ferito volevo la
mia vita indietro, loro vogliono la stessa cosa".
A. Baduel - 'La sua foto preferita, fra quelle scattate
a Za'atari?'
G. Duley - "Il padre che carezza la sua bambina.
E' universale. potrebbe essere ovunque".
A. Baduel - 'Quel che l'ha più colpita , dei siriani che
vivono lì?".
G. Duley - "La forza d'animo. Sono persone positive,
non si lasciano andare: fanno progetti".
Dina, 38 anni e suo figlio Ryan, 2
Lucianone
G
lunedì 19 maggio 2014
Sport / Storia - Giovanni Lodetti: il grande mediano
Nel campo dei ricordi visione post - 56
Giovanni Lodetti: "Gli anni tra il '60 e il '70
sono stati i più belli del secolo, non solo per
il calcio. C'erano più lavoro e speranza, c'era
come qualcosa nell'aria che adesso non c'è più.
Oggi hanno tutto, non la passione".
(da la Repubblica - 17/03/2014 - REPUBBLICA SPORT / Gianni Mura)
Il mediano che giocava con Rivera e i ragazzini
"Oggi sono tutti tristi"
Con Giovanni Lodetti si può partire da una foto che
sa di cinema neorealista. E' dell'ottobre 1963. Il sa-
cerdote sulla sinistra potrebbe essere Aldo Fabrizi.
Al centro, il ventunenne Lodetti, titolare del Milan,
palleggia circondato dai bambini del suo paese
("Caselle Lurani, nella Bassa lodigiana, allora non
faceva più di 500 abitanti) sul campetto dell'orato-
rio, dietro la chiesa. "Don Giovanni Delle Donne
si chiamava il prevosto. Nonchè proprietario del
mio cartellino. La domenica giocavo due partite,
al mattino con i ragazzi, al pomeriggio con quelli
più grandi. Non mi è mai pesato. Poi ho lavorato
da garzone meccanico per dare una mano in casa.
Eravamo quattro fratelli, due sono morti giovani.
Mio padre era falegname. El danè dana, ripeteva-
mia madre, il danaro danna, ma forse era un modo
per consolarsi di essere poveri. Il mio primo ingag-
gio me l'ero trovato con la Pejo, a Milano. Quando
sono andato a dirlo al prevosto ha tirato un pugno
sul tavolo che sembrava un tuono. Niente da fare,
per te ho altri piani. Cioè il Milan, un anno dopo.
Mi ricordo che c'era la festa di san Giuseppe e ar-
riva un dirigente del Milan, Trapanelli. Mi hanno
pagato centomila lire e una muta di maglie.
Ma l'esame vero fu due mesi dopo, al campo Sca-
rioni. Promosso. Al Milan ho trovato i due allena-
tori che mi hanno insegnato di più. Nelle giovanili,
Mario Malatesta: di lì sono usciti Noletti, Trebbi,
Salvadore, Pelagalli, Ferrario, Bacchetta. E poi
Liedholm, che curava molto la parte tecnica. Mi
aveva ribattezzato Bikila".
Gianni Mura: "E' stato difficile passare da Caselle
Lurani a San Siro?".
G. Lodetti - 'E' stato più difficile capire come funzio-
navano le cose. Ero aggregato alla prima squadra,
ad Asiago, e dovevo firmare il mio primo contratto.
Prima, in meno di quattro ore, Viani e Rocco ave-
vano già sistemato tutto con la prima squadra.
Viani e Rocco erano due uomini che mettevano sog-
gezione anche da seduti, dietro a un enorme tavolo
ovale, al primo piano dell'albergo. Entro, e dico buon-
giorno, loro stanno leggendo uno la Gazzetta e l'altro
il Corriere. Non mi filano neanche di striscio. Dopo
dieci minuti Rocco dice a Viani: Gipo, visto che el
mulo xe rivà, domandighe quanto ch'el vol. Quanto
vuoi? dice Viani. Tre milioni l'anno e l'entrata nella
rosa, dico. Significava essere considerato quasi tito-
lare e prendere l'80% dei premi-partita. Viani ripren-
de a leggere e dopo qualche minuto fa: la rosa te la
devi guadagnare e più di un milione non ti diamo,
prendere o lasciare. E Rocco: Gipo, fa'l bravo, femo
uno e mezzo. Ho firmato subito, poi ho capito che era
tutta una recita, come i due poliziotti nei telefilm ame-
ricani , uno ti dà uno schiaffo e l'altro ti offre una siga-
retta'.
Giovanni Lodetti
G. Mura: "Qual è stato il giorno più bello, da calcia-
tore?".
G. Lodetti - 'Sarebbe facile parlare delle Coppe dei
Campioni o dello scudetto o dell'Intercontinentale.
Per me il giorno più bello è stato quello del provino
alla Scarioni. Perchè il treno buono passa una volta
sola. o sali o resti giù. Dal mio paese c'erano due cor-
riere per Milano, alle 6 e alle 12. Ho preso quella del-
le 6 per non rischiare. Fermata a piazzale Corvetto,
poi la 93 fino a Lambrate e poi a piedi allo Scarioni.
Ricordo che c'era un caldo della Madonna, nessun
genitore, nessun parente, solo il prevosto che s'era
messo in testa un fazzoletto con le quattro cocche.
Gioann, famm fa' bela figura, mi disse. Da questo
punto di vista non ho rimpianti, ho sempre giocato
con la stessa passione che avevo all'oratorio. Sem-
pre, anche da professionista. Il primo choc è stato
dopo l'esordio in A, a Ferrara. 3-0 per noi. E mar-
tedì, all'Arena, Maldini mi mette in mano il mio
primo premio-partita, 100mila a punto, quindi 200
mila, per me 180. Diciotto fogli rosa, tant'è che
li chiamavano salmoni, grandi come mezzo tova
gliolo. Per paura che in tram me li rubassero so-
no andato a piedi dall'Arena al Corvetto e prima
di cena li ho consegnati a mio padre, che guada-
gnava 45mila al mese. Li ha presi, li ha contati,
lisciandoli sul tavolo, dopo il sesto già mia mamma
ma piangeva. E alla fine papà m'ha detto brao Gio-
annin e se li è messi in tasca. Un pò ci sono rimasto
male, speravo che almeno un deca me lo lasciasse,
ma mi è passata subito.
in Messico, dopo quanto s'è chiusa?".
G. Lodetti - 'E' rimasta aperta e mi ha fatto male per
anni. Meno da quando credo di aver capito cos'è real-
mente successo. Tutti sanno che s'infortuna Anastasi
e al suo posto ne convocano due, Boninsegna e Prati.
Uno di quelli già in Messico da qualche giorno dovrà
tornare a casa, ma noi del Milan sapevamo che Prati
aveva una caviglia acciaccata e non era in grado di
giocare, infatti non giocò. Sandro Ciotti mi mise una
pulce nell'orecchio: se hanno chiamato uno el Milan
e uno ell'Inter, non crei che toccherà tornare a uno
del Milan o ell'Inter? Ciò, speremo de no, gli ho det-
to facendo il verso a Rocco. Anche perchè dai test
ero uno di quelli più resistenti all'altura. Quando il
massaggiatore ni ha detto che mi volevano i capi, lì
ho capito. State sereni, ho detto ai compagni. Nella
stanza c'erano Mandelli, il capodelegazione, Valca-
reggi, il dottor Fini e un altro dirigente. Ci spiace,
Lodetti, ci addolora, ma siamo costretti a tagliarti.
Ma non ti preoccupare, convoca tua moglie, per
tutta la durata dei mondiali sarete ospiti della fe-
dercalcio ad Acapulco e riceverai lo stesso premio
che daremo agli altri".
G. Mura: "E lei?".
G. Lodetti - 'Io gli ho detto che erano delle facce
di merda, che non si può umiliare così la brava
gente e che sarei tornato in Italia col primo volo,
cosa che ho fatto. E del premio ne ho visto meno
della metà, ma non m'interessava. Continuavo a
non capire perchè dovessi tornare a casa io per
far posto a un Prati zoppo. Continuavo a chieder-
mi se avessi sbagliato qualcosa, ma andavo d'ac-
cordo con tutti. Da qualunque parte la girassi, era
un'ingiustizia bella e buona, anzi brutta e cattiva.
E non lo sapevo, ma era solo la prima parte del
film che mi avrebbe cambiato la vita e la carriera
Dopo il Messico e prima delle ferie, bel discorset-
to di Carraro: il Milan deve ritornare al rango che
gli compete, Lodetti è stato umiliato prima del via,
Rivera coi sei minuti, sarà la stagione del riscatto.
Bene, vado al mare in Versilia e dal bar della spiag-
gia mi dicono: c'è il Milan che ti vuole. E' la Rina,
la segretaria: Giovanni, ti passo il tuo nuovo presi-
dente. Com'è, non c'è più Carraro? No, sei tu che
vai via, ti hanno dato alla Samp, ti passo il dottor
Colantuoni. Mi è cascato il mondo addosso.
G. Mura: "Presagi, nell'aria?".
G. Lodetti - 'Nessuno. Dal Milan alla Samp voleva
dire non giocare più per gli scudetti, nè per le coppe,
ma per salvarsi magari all'ultima domenica. Ma non
si poteva rifiutare. E la Samp aveva ben tirati i cor-
doni della borsa. Ho chiesto a Carraro di darmi una
mano per ammorbidire Colantuoni e lui m'ha rispo-
sto secco: non posso, lei non è più del Milan. Così
sono andato a Genova, allenava il dottor Bernardi-
ni che mi ha dato subito la fascia da capitano, e mi
sono anche trovato bene. E tra i ricordi più belli con-
servo il premio al miglior doriano della stagione,
quello dato dai tifosi, sì, quello che non ha voluto
ritirare Cassano, quel pirlotto. Ovviamente la ferita
non si è chiusa, anzi è stato peggio. Perchè nessuno
del Milan in quei giorni mi ha fatto una telefonata:
non Rocco, non Rivera, nemmeno il Trap, che era-
vamo sempre insieme e ci chiamavano le due coco-
rite. Nessuno: cancellato io coi miei dodici anni di
Milan. E questa non l'ho ancora capita adesso. Non
finirò mai di ringraziare mia moglie Rita, una don-
na eccezionale. Se non c'era lei con me, non so co-
me sarebbe andata a finire".
G. Mura: 'Del Messico ha poi capito, giusto?'.
G. Lodetti - 'Parlando col dottor Bernardini ho sa-
puto che il Milan da mesi faceva la corte a Benetti.
Aveva offerto, in ordine sparso, Malatrasi, Trapatto-
ni, Sormani, ma Bernardini aveva detto: si fa l'affare
solo se ci date Lodetti. Quindi, ero da sacrificare a un
intersee di mercato.
Continua... to be continued...
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