martedì 31 luglio 2018

ARTE - Pablo Picasso e Guernica: nascita e anatomia di un capolavoro

31 luglio '18                                 visione post - 82

(da il venerdì di Repubblica - 31 marzo '17 - 
Marco Cicala / Madrid)
Una strage di civili. Un genio in crisi
che nello shock ritrova l'ispirazione., 
Un mese di lavoro folle. Le polemiche,
la guerra, la "fuga" negli Usa, il ritorno
in Europa.  Viaggio in un dipinto che 80
anni fa cambiava la storia dell'arte, ma
che all'inizio fu stroncato persino da si-
nistra. Una tela ancora avvolta da leg-
gende e segreti. A cominciare da quello
di una misteriosa scatoletta con dentro
una lacrima rossa.

COPPIE, SCOLARESCHE, GRUPPI VACANZA,
o gli ormai ineludibili hipster con barbetta e occhiali
spessi: al Museo Reina Sofia c'è sempre un mucchio
di gente più o meno venerante accampata davanti a
Guernica,  Ma viene da chiedersi se oggi, in tempi di
massacri banalizzati, la strage che ispirò quel dipin-
to in ogni senso enorme  avrebbe  lo stesso  impatto
emotivo di allora, cioè ottant'anni fa.
Nel pomeriggio  del 26 aprile 1937, col grazioso con-
tributo dell'aviazione mussoliniana, gli Heinkel e gli
Junkers di Hitler sganciarono sull'antica capitale ba-
sca di Guernica  fra trenta  e  quaranta tonnellate di
bombe, incendiarie o a scheggia. Era un lunedì, gior-
no di mercato. Gli abitanti stavano riemergendo dal-
la siesta quando insieme agli animali - asini, maiali,
galline - si ritrovarono ingoiati da un tornado di fuoco.
Dopo tre ore di martellamento dal cielo, della città non
rimaneva che la carcassa.  I morti furono 1.654, i feriti
quasi novecento. Benchè ospitasse qualche impianto 
per la fabbricazione di armamenti. Guernica - in basco
Gernika - non rappresentava uno snodo strategico. 
Arrostendo i civili, l'incursione non aveva altro obietti-
vo che quello terroristico  di stroncare  il morale tra le
forze repubblicane.  Per quanto le grandi potenze aves-
sero già testato  certi  metodi  nei territori coloniali, si
trattava del primo bombardamento  a tappeto sul suo-
lo europeo.  Più tardi, sconfessando le fanfaluche fran-
chiste che addossavano l'ecatombe ai "rossi", Herman
Gòering avrebbe definito Guernica un "laboratorio". 
Era la prova su strada dei nubifragi di bombe che si
sarebbero abbattuti su Varsavia, Rotterdam, Coven-
try, ma nche sulle città tedesche, fino al gran finale
di Hiroshima e Nagasaki.
Pablo Picasso, che all'epoca aveva 55 anni e risiedeva
a Parigi da una trentina, apprese dell'inferno di Guer-
nica mentre sedeva ai tavolini del Cafè Flore. Leggen-
done i dettagliati resoconti sulla Stampa, ma soprat-
tutto ma soprattutto vedendone le foto, la carneficina
si incise in lui come un trauma. Per uno di quei para-
dossi di cui la storia dell'arte straripa, la voragine di 
umanità e di vita  che  la ferocia  nazifascista  aveva 
scavato nel cuore dei Paesi Baschi colmò improvvisa-
mente il vuoto creativo nel quale Picasso si dibatteva
da mesi.  Le autorità repubblicane gli avevano com-
missionato un grande murale  da esporre  nel padi-
glione spagnolo dell'Expo parigina che si sarebbe
inaugurata alla fine di giugno. Ma la data di con-
segna si avvicinava e l'ispirazione di Picasso - chia-
miamola così - era in panne. Oltre che sul suo con-
clamato genio gli antifranchisti puntavano sul suo
prestigio.  Anche  se  a partire  dal secondo Dopo-
guerra lo sarebbe diventato molto di più, il mala-
gueno era già un artista leggendario. Peccato che
non avesse mai accettato di lavorare su ordinazio-
ne e che fino a quel momento le sue posizioni po-
litiche non si fossero mai arrischiate  oltre un ge-
nerico anarchismo bohèmien. In linea con l'alte-
roro disimpegno del verbo modernista, il Picasso
del cubismo proclamava che il fine dell'arte non
è "bè il bene nè il male, nè l'utile nè l'inutile" e
che la pittura "è dipingere e nient'altro".  Ma
dall'epoca di quelle sentenze la temperie cultu-
rale europea era molto cambiata.  E allo scop-
pio della guerra civile  l'atteggiamento  di  Pi-
casso muta: lo sdegno verso il golpe fascista si
fonde con la nostalgia della Spagna che è affio-
rata in lui negli ultimi anni parigini. D'impul-
so, con le bombe che a Madrid minacciano or-
mai anche il museo, Picasso acconsente a veni-
re nominato direttore del Prado.  Un incarico
che  ricoprirà  in  forma  virtuale, senza  mai 
muoversi dalla Francia. E tuttavia non siamo 
ancora a un pieno engagement.   Sebbene ab-
bia deciso da che parte schierarsi, P. Picasso
continua ad avvitarsi in tortuose ruminazio-
ni, evita di esporsi politicamente, al punto
che la propaganda nemica mette in giro la 
voce che simpatizzi segretamente per i na-
zionalisti.

E' questo l'uomo sotto pressione che tra indugi e ri-
luttanze finisce per accettare anche allettato dalla 
gratificazione economica, circa duecentomila fran-
chi - la commessa governativa  per l'Esposizione
Internazionale.  Picasso accetta, però per mesi cin-
cischia, esita, non sa da che parte cominciare. Nel
gennaio del '37 realizza una serie di acqueforti in-
titolate Sogno e menzogna di Franco (ma il gioco
di parole si coglie solo in francese: Songe et men-
songe de Franco).  A metà tra le strisce dei moder-
ni comics e le aleluyas, le incisioni popolari della
tradizione religiosa barocca, sono immagini grot-
tesche che sbeffeggiano la figura e l'antropiologia
guerriera del futuro Caudillo.

Pariodo "Blu" -
ll piacere di raccontare


CONTINUA...
to be continued...

domenica 15 luglio 2018

Scrittori - James Joyce: da 'Ulisse' a 'Finnegans Wake', viaggio al termine del '900

: 15 luglio '18 - domenica              visione post - 92


(di Stefano Bartezzaghi - da il venerdì di Repubblica, 13 gennaio '17)  

L'ultima follia di Joyce -
Finnegans Wake fu scritto dal genio irlandese poco
prima di morire. ......

CON
         l'Ulisse  aveva sconvolto  il romanzo, ma con
Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema
dalla lingua babelica dove i miti si confondono con
le canzoni da pub.
L'ammiratore Umberto Eco lo definì "terrificante".
Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani
ci sono riusciti.  Qui spieghiamo  come hanno af-
frontato un capolavoro venerato dalle avanguardie
ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
"Riverrun", "Meandertale", "Chaosmos " sono tre
fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vo-
cabolario) del romanzo di cui l'autore stesso pensava;
"Forse è una follia. Si potrà  giudicare  solo fra un se-
colo".  Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono 
passati meno di ottanta, e l'opera estrema di James 
Joyce può continuare a sembrare una congettura di
Jorge Luis Borges. Isinvece il Finnegans Wake non so-
lo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italia-
no.  Di Joyce è opera estrema non solo perchè ultima
(è uscito nel 1939), diciassette anni dopo l'Ulysses, e
due anni prima della morte dell'autore.    Lo spiegò
Umberto Eco, nel 1962: "Pareva che Ulysses avesse
sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: 
Finnegans Wake supera questo limite oltre i confi-
ni del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio
avesse dato prova di tutte le sue possibilità Finnegans
Wake porta il linguaggio  oltre ogni confine di duttilità
e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse
il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos:
Finnegans Wake costituisce il più terrificante documen-
to di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si
sia mai avuta notizia". 
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significati-
vamente intitolato  "La guerra contro i clichè"   una
prefazione all'Ulysses, e vi ha così riassunto le quat-
tro tappe fondamentali della produzione joyciana: 
" Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino,  
il più o meno comprensibile Ritratto dell'artista da
giovane, poi l'Ulisse, prima che Joyce si prepari per
per  quell'immolazione  di ostilità, di sterminio  del
lettore  che  è Finnegans Wake, dove  ogni  parola è 
un pun multilingue".   E' il gioco di parole, quindi, 
la "terrificante" (Eco) arma  con cui  si compie  lo
"sterminio del lettore" (Amis).   Nel pun le parole 
possono incastrarsi l'una nell'altra, aprendo nuo-
ve dimensioni di significato:  i gemelli "siamesi" 
sono "soamheis" (so-am-he-is, così come io sono,
egli èl; "Chaosmos" è il caos che non si oppone
ma si interpone al cosmo; "riverrun" (prima e 
ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo
perchè la fine si salda con l'inizio)  è  un'unione 
di "fiume" e "scorrimento" (ma può essere mol-
te altre cose); "Meandertale" è una sorta di scia-
rada fra il "meandro"  e  il "racconto (tale) che
finisce per produrre un'entità vicina a "Neander-
thal", quindi all'uomo primordiale e ai suoi istin.
ti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il tito-
lo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia
irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui
ritornello dice "Vedi che avevo ragione? / Alla
veglia di Finnegan ci si diverte da matti!". Per
Joyce agglomerare parole o, al contrario, disag-
gregarle in atomi entropici di significato era an-
che  un divertimento  personale: non a caso gli
capitava di chiamarlo "joycity", gioiosità joy-
ciana.
Al proprio "meandertale", oscuro labirinto e puzzle 
narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti  e  ideal-
mente insonni.  Dei traduttori  non ha parlato  (per 
quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione
italiana di una sezione), ma il testo  li postula onni-
scienti e invulnerabili.  Dopo qualche saggio di tra-
duzione italiana assai parziale da parte di scrittori
intrepidi  come Gianni Celati  e  Rodolfo Wilcock
(oltre allo stesso Joyce), a decidere  di  affrontare
non l'Ottomila  di uno o due capitoli  ma l'intero
Himalaya del libro completo  è stato un tradutto-
re bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell'in-
credulità generale pubblicò il primo volume nel
192, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due
terzi dell'opera. Il suo testimone è stato raccolto
da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone  di cui  ora 
esce la traduzione del penultimo tratto di Finne-
gans Wake Libro Terzo, capitoli 1 e 2, Monda-
dori, pp. 420, euro 24), corredato di diversi ap-
poati, oltre che dall'imprenscindibile testo ori-
ginale a fronte. 




Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che
il romanzo  "si traduce da solo",  poichè è scritto
in una lingua babelica, in cui l'inglese si confron-
ta con apporti  di ogni altra lingua conosciuta  o
raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l'ita-
liano ma anche il dialetto triestino: chissà quan-
ti non-italiani leggendo "riceypeasy" penseran-
no ai "risi e bisi" qui evocati consapevolmente
da Joyce).
La storia  di questo libro inimmaginabile  era
cominciata nel 1922, un anno dopo l'uscita di
Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere
a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva
con il disegno di un quadratino; quando ne par-
lava, lo chiamava work in progress, il lavoro in
corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per
chi avesse indovinato il titolo definitivo ( il pre-
mio  fu aggiudicato  dieci  anni dopo, un anno
prima dell'uscita del romanzo. -    La canzone
Finneggan's Wake parla della veglia funebre 
per un ubriacone, durante la quale  gli amici
bevono e litigano, fanno cadere un goccio di 
whisky sul cadavere, che si ridesta ("wake"
come nome significa "veglia" ma come verbo
sta per "svegliarsi".  Joyce trasformò "Finne-
gan's" in "Finnegans", e la veglia di Finnegan
diventò "la veglia dei Finnegan" o "i Finnega-
ns si svegliano". Nè si può trascurare la circo-
stanza per cui Finn è un gigante della mitolo-
gia irlandese, nel mito di fondazione della cit-
tà di Dublino, e sempre per assonanza e pun
"Finnegan" può diventare "Finn again", anco-
ra Finn, in riscossa dello spirito irlandese. 
Come se non bastasse c'è il latino, dove "negans"
è participio presente di negare  e  quindi "Fin ne-
gans wake" è una veglia, o un risveglio, che nega
la fine.
Il fatto è che Joyce  era rimasto  impressionato,
letterariamente  se  non  filosoficamente, dalla 
Scienza Nuova di Giovan Nattista Vico, con la
dottrina dei corsi e ricorsi  e la sequenza delle
ere degli Dei, degli Eroi e degli Uomini.  Volle
narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo
però nella forma stessa del suo romanzo, non
una quadratura del cerchio, ma una circola-
zione del quadrato, diceva:  il quadrato  sta
per il susseguirsi di nascita, crescita, morte,
rinascita. A capirlo prima di tutti fu il giova-
ne Samuel Beckett che di Joyce era stato an-
che collaboratore stretto, e quando del Work
in Progress  non  si  conoscevano  che  pochi
tratti ne parlò così: "Qui la forma è il conte-
nuto, il contenuto è la forma.  Si protesterà
che questa roba non è scritta in inglese. Non
è affatto scritta. Non è fatta per esser letta,
o almeno non solo per essere letta. Bisogna
guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce 
non è su qualcosa: è quel qualcosa".

Risultati immagini per joyce - finnegan wakes

Nel contenuto e nelle forme espressive della
narrazione fra l'Ulysses e Finnegand Wake
avviene il passaggio dal giorno alla notte.
Là c'era una giornata nella vita di un everyman
Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo,
l'oste H. C. Earwicker. Nelle forme di un'allego-
ria letteraria l'Ulisse-Boom aveva il suo Telema-
co-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontra-
va sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di
Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo,
storico, geografico, mitologico)  non  scorrono
più parallele al testo ma si fondono fra loro se-
condo le condensazioni tipiche del lavoro oniri-
co.  Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno an-
che per Here Comes Everybody (Qui arriva ognu-
no) e per molte altre soluzioni dell'acronimo; la
moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna
il fiume dublinese Liffey; corrispondenze nume-
rologiche trasfigurano i dodici clienti dell'osteria
di H. C. E. negli apostoli  o nelle ore dell'orolo-
gio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle
identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua me-
desima diventa un dispositivo di condensazione, in cui
radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative  convi-
vono nella stessa parola. Se l'Ulysses rompeva la sin-
tassi dell'inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake
non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una trom-
ba d'aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il 
consulente che scrive alla casa editrice: "Per piacere,
dite alla direzione di stare più attenta quando manda
i libri in lettura. Io sono un lettore d'inglese e mi avete
mandato un libro in qualche diavolo di altra lingua.
Restituisco il volume in pacco a parte.
 
LO scrittore Michel Butor ha detto: "Se noi vogliamo
leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo
prendere molte parole in modo diverso da quello in cui
sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e
dei loro significati possibili". Ogni lettore fa scelte pro-
prie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo:"Fin-
negans Wake è così per ciascuno uno strumento di cono-
scenza intima".
here Comes Everybody, appunto.  Forse è significativo che
tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake
si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Exo.
L'Everybody dublinese, dall'alto del suo estremo gioco let-
terario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria
allora convergono: la storia, l'ostilità,  l'ospitalità,  l'isteria  di
tutti. Se fra vent'anni decideremo che si trattò di follia, già og-
gi sappiamo che lì c'era del mitico.




CONTINUA...
to be continued...

lunedì 9 aprile 2018

Cultura - La poetessa dei Navigli: Alda Merini

                                                             visione post - 89

(da la Repubblica - 21 marzo '18 - di Simone Mosca)

ALDA MERINI: una tempesta 
di primavera
Aveva 16 anni, quindi doveva essere il 1947. A chi
ne conosceva l'orgoglio da grande seduttrice, con
un sorriso satiresco raccontava che la primavera
di quell'anno ebbe una breve fuga d'amore, forse
il primo vero batticuore.  Durò  qualche  giorno,
scappò concupita da un uomo  "brutto, simpati- 
co ma molto imtelligente", di 11 anni più grande.
Lui era Giorgio Manganelli, lei Alda Merini, poe-
tessa che  ann i dopo  il breve firt, al Manganelli
famoso scrittore dedicò una poesia. "I tuoi libri
sono là, mio caro amico/hanno distanze che so 
solo io". Si puù leggere il verso in una teca pie-
na di dattiloscritti autografi.  In  un'altra  che
raccoglie prime edizioni, è datata 1999  Vuoto 
d'amore , Einaudi. Reca in copertina versi più 
noti che servono a dare il senso alla giornata. 
"Sono nata il ventuno di primavera/ma non
sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse
scatenar tempesta". La libreria Pontremoli, che
Merini frequentò  nella storica sede  sui Navigli
e che da un anno e mezzo si è trasferita in zona
Bocconi, dedica una mostra  alla  poetessa  nel
giorno in cui festeggere bbe l'87esimo complean
no.  L'inizio di primavera, la giornata mondiale 
della poesia. La mostra si intitola "Letto divino",
come uno dei di micro libri firmati per le Edizio-
ni Pulcinoelefante. E' un'opera da un solo afori-
sma: "Il mio letto è una zattera che corre verso
il divino".  I volumetti stampati con l'amico Ca-
siraghy sono una delle sezioni della mostra. Al-
le pareti sono sistemate 40 fotografie di Giusep-
pe Nicoloro che ha seguito Merini a partire da-
gli anni '80. Vanno dalle consuete pose contur-
banti ambientate sul letto agli studi Mediaset
dove sta per andare in onda con Chiambretti.
In mezzo epifanie.  Come  un'indecifrabile se-
rata a teatro dove, pur di scortarla, a braccet-
to sgomitano Roberto Vecchioni, Gianfranco
Ravasi e Cesare Romiti mentre lei sfodera un
ghigno luciferino da domatrice. Ma il suo ge- 
nio naturale aveva davvero il potere di amma-
liare, un dono che negli ultimi anni purtroppo
si rivelava soltanto a voce.  Non  scriveva  
di persona, doveva dettare,  e  allora  cercava
in fretta al telefono qualcuno cui confidare la
poesia che le sgorgava al momento.  La  dote 
più preziosa di rarità, alla Pontremoli, è  an-
che per questa ragione la raccolta di scritti,
a partire da quelli giovanili. Quando, notata
notata dal critico  Giacinto Spagmoletti  che 
la inserisce in un'Antologia della Poesia ita-
liana contemporanea nel '50, oltre a Manga-
nelli   finisce  a dare  del tu a Montale, e so-
prattutto a Quasimodo.  Frequentato per 3
anni dal '50, è del 53 l'Odissea  tradotta da
Quasimodo che la regala  alla giovane col-
lega. La dedica è "in amicizia". Merini in-
soddisfatta due pagine dopo risponde con
una ben più esplicita frase rivolta al vene-
rato maestro. "Vorrei che il tuo sguardo...".
Molte sono le lettere spedite a Vanni Schei- 
willer, editore della raccolta d'esordio  La
presenza di Orfeo, '53, e poi di tante altre.
Nelle quali non entrò un numero conside-
revole di opere, come si vede dai "No" con
 cui Scheiwiller scartò  decine di proposte.
Fogli che si possono considerare inediti.
Sempre il '53 è l'anno in cui Merini sposò
il primo marito  Ettore Carniti, panettiere,
iniziando nel frattempo a scriversi, ma per
ragioni professionali, con quello  che diven-
terà il secondo, nel 1984, il medico e poeta
tarantino Michele Pierri. Due passaggi al-
l'altare, tre figli dal primo matrimonio. In
mezzo gli abissi intermittenti dei ricoveri. 
Una vicenda che si ritrova nelle fotocopie 
che Merini, negli anni più difficili, orfana
di editori. montava  in  forma  di libro   e 
vendeva a mano. O nei versi composti nei
periodi  che trascorreva  a casa, in vacan-
za dal manicomio dove sapeva l'avrebbero
rimandata: "Il mio dottore sa che piango/
ma non se n'è disperato".


Lucianone

venerdì 23 febbraio 2018

Cultura - Il personaggio horror: Charles Manson

23 febbraio '18 - venerdì                    visione post - 99

(da la Repubblica - 21 / 11 / '17 - di Vittorio Zucconi)
Lo chiamarono  "Satana", ma Charles Manson  era
soltanto un demente, colui che chiuse nel sangue il 
decennio del sangue, gli anni '60 in America. Con la
mattanza di sette innocenti, più  il feto  di otto mesi
che la stupenda attrice Sharon Tate portava nel ven-
tre, sbudellati  in un'orgia di atrocità  consumata in
due notti d'agosto dalle sue erinni strafatte e dai suoi
seguaci, questo ometto di appena un metro e cinquan-
ta, figlio di nessuno e assassino di molti segnò un tem-
po che aveva sognato  nei fiori  e  si sarebbe suicidato 
nella violenza. L'atto  finale  di  una  lunga  tragedia 
americana, aperta  dall'assassinio  di  Kennedy   nel 
1963, continuata negli omicidi di Martin Luther King 
e di Malcolm X, trasportata fino ai campi della morte
indocinesi dove  58mila  giovani soldati  e milioni di  
vietnamiti sarebbero morti non avrebbe potuto che 
andare in scena nel mondo dello show business, del
cinema, della musica, dell'immaginazione, fra Hol-
lywood e l'Oceano Pacifico, a Beverly Hills.
Tutto, nel film dell'orrore che Manson  e la sua "fa-
miglia", come lui definiva  l'accozzaglia  di sbanda-
ti, di scappate di casa, di profughi  della Grande Il-
lusione Hippy, dei fiori e dell'acido, parla il linguag-
gio del cinema, l'eterna, feroce musa che attira ver-
so quelle colline attorno a Los Angeles tutto ciò ro-
tola verso l'Ovest.  Il ranch dove aveva raccolto  le
sue schiave  e  i suoi  pochi zombie  maschi era un 
set di film  Western abbandonato, appartenente a 
un ottantenne, George Spahn, che aveva accettato 
di ospitare Manson  e  i suoi seguaci  in cambio di 
un pò di manutenzione dei ruderi e di cura dei ca-
valli affittati ai rari visitatori.    E di qualche servi-
zietto delle ragazze che il Guru maligno metteva a 
sua disposizione.   Come  Lynette Fromme, che si 
era guadagnata  il nomignolo di "Squeaky",   per-
chè squittiva ogni volta che il vecchio le pizzicava
le cosce.  Nel 1975 sarebbe divenuta  celebre  per 
avere sparato, senza colpirlo,  al  presidente  Ge-
rald Ford, conquistandosi il carcere dove ancora
oggi vegeta.

Charles Manson nel 2014
Il cinema era naturalmente il mondo dove
Sharon Tate, l'incantevole moglie del regi-
sta Roman Polanski  e attrice di non ecce-
zionale talento, viveva, in quella villa di Bel
Air, il meglio di Beverly Hills, ed era la sera
del 9 agosto 1969  quando  le  tre  ragazze e
l'uomo incaricati  da Manson di compiere il
massacro rituale dei "Pigs", dei porci, la tro-
varono, insieme  con  un parrucchiere  delle
dive, uno sceneggiatore amico di Polanski e
la moglie, una ricchissima ereditiera  e  il fi-
glio del giaediniere, un ragazzo  di  18  anni 
che  stava lasciando  la casa.   Polanski  era 
lontano, in Europa, per promuovere  il suo 
film più celebre  "Rosemary's Baby"  e  la 
mattanza fu facile per quei quattro cavalie-
ri di morte. con la  "calibro 22"  che   sarà
trovata  giorni dopo, con i coltelli, uno dei 
quali sarebbe stato recuperato  dagli  inve
stigatori, infierendo sui vivi  e  sui loro ca-
daveri, torturandoli, sventrando Sharon e
la sua creatura. La Tate, che si era offerta
come ostaggio  per salvare la vita degli al-
tri, morì sotto quindici coltellate, mormo-
rando "Mother... mother...". Il suo sangue
fu usato per scrivere "Pig", maiale, sulla
porta di casa  per lasciare   "un segno da 
streghe", come Manson aveva ordinato.
Era la realizzazione  di quel progetto di 
"Helter Skelter",  di caos,  che  Charles 
Manson diceva  di avere scoperto  nelle  
liriche, nei suoni violenti,  nel rock inu-
suale  del pezzo  che  Paul  McCartney 
aveva scritto per i Beatles, perchè anche 
la musica, come il cinema,  avvolgevano
la sua follia. Aveva conosciuto, frequen-
tato e inciso con il batterista degli allora
adorati Beach Boys, Dennis Wilson, per 
il quale aveva scritto un pezzo, "Non di-
simparare mai ad amare", ma il suo pro-
getto politico era scatenare la guerra dei
bianchi contro i neri, di eliminare  i  più
deboli per meglio distruggere gli afro a-
mericani, nel segno del suo neonazismo
che avrebbe inciso  con  la punta  di un 
coltello sulla fronte, nel segno della sva-
stica.  
Nel bis offerto la sera successiva, il 10
agosto, di nuovo la strana allusione al
cinema sarebbe tornata, in una coinci-
denza che avrebbe più tardi solleticato
l'immancabile "complottismo" genera-
to da ogni delitto sensazionale. 

Lucianone

sabato 17 febbraio 2018

SCRITTORI / Dan Brown - Il libro: "ORIGIN"

18 febbraio '18 - sabato                        visione post - 86

Il Codice Guggenheim
Quale mistero porta Robert Langdon a Bilbao?
Così inizia il nuovo romanzo di 
Dan Brown, "Origin" -
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IL professor Langdom sollevò lo sguardo verso il cane
alto una quindicina di metri seduto nella piazza. Il pe-
lo dell'animale  era un tappeto vivente  d'erba  e  fiori
profumati.
"Io ce la sto mettendo tutta per trovarti bello" pensò. 
"Ci sto davvero provando".
Osservò  la creatura  ancora per qualche istante, poi
proseguì lungo una passerella sospesa e scese una 
larga rampa di scalini  la cui  superficie discontinua 
aveva lo scopo  di costringere il visitatore  ad altera-
re il ritmo dell'andatura. "E ci riesce benissimo" de-
cise Langdom, rischiando di cadere per ben due vol-
te sui gradini irregolari.
Arrivato  in fondo  alla scalinata, si fermò di botto, 
fissando l'enorme oggetto che incombeva minaccio-
so più avanti.
"Ora posso dire di averle viste proprio tutte".
Davanti a lui  si ergeva  un ragno gigantesco, una
vedova nera, le cui sottili zampe di ferro  sostene-
vano un corpo tondeggiante a un'altezza di alme-
no dieci metri.  Sotto l'addome del ragno era so-
speso un sacco ovigero di rete metallica pieno di
sfere di vetro.
"Si chiama Maman" disse una voce.
Langdon abbassò lo sguardo e vide un uomo snello
in piedi sotto il ragno.  Indossava  uno sherwani  di
broccato nero e sfoggiava  un paio di baffi arriccia-
ti alla Salvador Dalì al limite del ridicolo.
"Mi chiamo Fernando" proseguì l'uomo " e sono
qui per darle  il benvenuto  al museo".  Esaminò 
una serie  di targhette di riconoscimento posate
sul tavolo davanti a lui.   "Posso avere il suo no-
me per favore?".
"Certamente. Robert Langdon".
L'uomo alzò lo sguardo di scatto. "Ah, mi scusi!
Non l'avevo riconosciuta, signore!".
"Faccio fatica a riconoscermi io" pensò Langdon,
avanzando impacciato in frac nero con farfallino
e gilet bianchi. "Sembro un Whiffenpool". Il clas-
sico frac di Langdon aveva quasi trent'anni e risa-
liva ai tempi in cui lui era  membro dell'Ivy Club
di Princeton ma, grazie al costante regime di nuo-
tate quotidiane, gli andava ancora alla perfezione.
Nella fretta  di fare i bagagli, aveva preso il porta-
biti sbagliato dall'armadio, lasciando  a  casa   lo 
smoking che indossava di solito in quelle occasio-
ni.
"L'invito diceva 'bianco e nero'. Spero che il frac 
sia adatto". L'uomo gli si avvicinò a passi svelti e 
gli appiccicò una targhetta con il nome sul risvol-
to della giacca. "E' un onore conoscerla, signore"
aggiunse. "Sicuramente sarà già stato da noi?".
Langdon osservò da sotto le zampe del ragno l'e-
dificio scintillante davanti a loro.  "In realtà mi 
vergogno a dirlo, ma non ci sono mai stato".
"No!". L'uomo finse di cadere all'indietro. 
"Non è un amante dell'arte moderna?".
Langdon aveva sempre apprezzato la sfida dell'arte
moderna... in particolare  gli piaceva cercare di ca-
pire il motivo per cui determinate opere erano con-
siderate dei capolavori: i quadri di Jackson Pollock
realizzati  con la tecnica  del dripping, i barattoli di 
zuppa Campbell  di Andy Warhol, i semplici rettan-
goli di colore di Mark Rothko.  Detto questo, Lang-
don si sentiva molto più a proprio agio a discutere
del simbolismo religioso di Kieronymus Bosch o del-
le pennellate di Francisco Goya.
"Ho gusti più classici" rispose. "Me la cavo meglio
con da Vinci che con de Kooning". 
"Ma da Vinci e de Kooning sono così simili!".
Langdon sorrise, paziente. "Allora è evidente che ho 
parecchio da imparare su de Kooning".
"Bè, è nel posto giusto!". L'uomo indicò con il brac-
cio l'enorme edificio.  "In questo  museo  troverà la
miglior collezione d'arte moderna sulla terra! Spero
se la goda".
"E' quello che intendo fare" rispose Langdon. "Vor-
rei solo sapere perchè mi trovo qui".
"Lei come tutti gli altri!". L'uomo si fece una bella ri-
sata scuotendo la testa. "Il suo ospite è stato molto mi-
sterioro sullo scopo dell'evento di questa sera. Neppu-
re il personale del museo  sa cosa succederà.  Il miste-
ro è metà del divertimento...   Girano un sacco di voci!
Ci sono centinaia di ospiti dentro, molte facce famose,
e nessuno ha la minima idea di cosa ci aspetti stasera!".
Langdon sorrise divertito.  Poche  persone  al mondo 
avrebbero avuto la sfrontatezza di spedire degli inviti
all'ultimo minuto dicendo in sostanza: "Presentati qui 
sabato sera. Fidati di me". E  ancora meno  sarebbero 
riuscite a convincere centinaia di VIP a mollare tutto...

Lucianone