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Recording live at Newport Jazz Festival visione post - 112
THE DAVE BRUBECK QUARTET
(featuring Paul Desmond)
Recorded live at the Newport Jazz Festival (1953),
this Dave Brubeck recording is, among the
vast production of the artist, the one that
obtained the largest success with his fans
in the U,S,A, Brubeck has been considered by the public as well as the professionals as the most popular jazzman of the West Coast. The compositions performed in this album are standards of jazz. Brubeck and Desmond largely improvise on these themes and seem to be at the best of their capacity. I'll never smile again, a side from solos by Brubeck
and Desmond, has a bass solo by Ron Crotty. Let's fall in love gets a slight Christmas Carol sound
in the beginning and Brubeck has a solo of an unusual
mood. Desmond, of course, is heard at length and
Crotty is also given time for a short statement. Sturdust shows the pattern with which the group has
always played it. The audience applause following
Desmond's long improvisation, quickly brings to mind
the familiar picture of Desmond acknowlodging it
with a light smile, hands folded over the saxophone as
he steps back to stand, with head cocked to one side,
listening attentively to the chorus by Brubeck which
followed. All the things you are is a bright number with Paul
beginning his solo with a light, almost clarinet tone
and Dave interpolating a quote from "My Man" into
his solo. Note particularly the way in which Desmond
creeps in his own solo on the tail of Brubecks's closing
phrase.The two then begin their celebrated dual impro-
visation. Why do I love you is the shortest piece in the album
and is almost a "tour the force" for Desmond. Brubeck
enters closely tied to Desmond's solo and there is an
interesting passage by both before the bright duet at
the end. Too marvelous for words has an interesting Brube-
ckian touch of almost boogie woogie trilling in the
in the middle of the piano solo which follows Paul's
opening improvisation. You may catch an eco of
"Digga Digga do" in Brubeck's chorus prior to the
entry of Ron Crotty for his last bass solo on the al-
bum. - The ending of this tune and the album is
replete with the double echoes of alto and piano as
Paul and Dave again join musical thoughts.
CONTINUA... to be continued...
Grossman, ebreo, e Rushdie, musulmano, dicono: "Ci siamo salvati scrivendo" Per la prima volta i due scrittori si sono incontrati e hanno raccontato a Emanuela Audisio di 'Repubblica' (18/11/'12) come combattono l'odio e il dolore.
I fanatismi, il dolore, le piccole abitudini riconquistate. Seduti in un caffè milanese, per la prima volta i due scrittori si incontrano faccia a faccia. E si raccontano. Grossman: "Quando mio figlio è morto in guerra ho creduto che non avrei più trovato la forza di scrivere". Rushdie: "Dopo la fatwa l'ho pensato anch'io". Sapessi come è strano per David e Salman incontrarsi
e parlarsi davanti ad un cappuccino a Milano. Lo scrit-
tore ebreo e quello musulmano per la prima volta faccia
a faccia. Amici nonostante la lontananza geografica e
religiosa. E con lo stesso nemico: il fanatismo .
Grossman nato a Gerusalemme nel '54 e Rushdie nel '47.
David che vive su un fronte di guerra presente ("E'terri-
bile stare lontano dal proprio paese in un momento così
drammatico) e Salman che non aveva un fronte, perchè
sotto la fatwa qualsiasi strada poteva esserlo. L'israelia-
no e l'indiano, due padri, uniti dall'aver pagato anche in
famiglia un alto prezzo per quel fronte. -
I due scrittori nel loro ultimo lavoro hanno concesso la
loro intimità ai lettori: Grossman in "Caduto fuori dal tempo" a metà tra poesia e prosa scrive di genitori che
hanno perso il figlio e Rushdie in "Joseph Anton" parla
in terza persona di cosa gli capitò da quando il giorno di
di San Valentino dell'89 l'ayatollah Khomeini lo condan-
nò a morte per i Versi satanici. "Caduto fuori dal tempo" e "Joseph Anton", editi da
Mondadori, sono due libri disperati e teneri, due diari
pubblici di un dolore privato. Salman Rushdie
E. Audisio: "Venite da paesi e da infanzie diverse, c'è una
parola, un tema che vi accomuna?". Rushdie - "Credo sia il linguaggio, la flessibilità, le sfuma- ture, il fatto di non dargliela vinta a chi vorrebbe volgarità e violenza. Non ci abbassiamo. Cerchiamo il punto di vista degli altri, il dialogo, non sottovalutiamo nè disprezziamo altri pareri e sguardi. Entrambi abbiamo messo la famiglia al centro dei nostri racconti, guardiamo agli individui, a speranze e desideri, tutto e tutti ci sembrano degni di curio- sità, bisogna sapere, conoscere, rispettare. Non siamo co- me i Talebani che odiano il piacere. Infatti cosa vietano? La musica. la danza, il cinema. Qualsiasi cosa dia piacere e gioia. La loro idea è che solo dopo la morte ci sia la vita, dunque tutto quello che emoziona su questa terra non vale la pena". Grossman - "Sì, Salman ha ragione. Noi cerchiamo di capire le ragioni e le vite altrui, strizziamo le parole, le valutiamo. Non scriviamo per sfogarci. E' spaventoso che in questo momento a Gerusalemme la mia nipotina di quattro mesi sia in un rifugio, che idea si farà dell'esi- stenza? Ma questo non significa ignorare che anche i palestinesi hanno i loro diritti. Non dobbiamo amarli, ma conoscere le loro privazioni sì, non sono estranei da lasciare fuori, non puoi solo vivere l'ignoranza e condannare gli altri e guerreggiare. Noi scrittori non abbiamo eserciti e nemmeno possiamo finan- ziare armamenti. La nostra resistenza deve essere civile, magari con piccoli gesti, con analisi che non siano visce- rali. Noi possiamo smonatere l'odio dei fanatismi o almeno provarci. Abbiamo il potere di ricordare agli altri che c'è un'alternativa, anche contro la realtà, la logica e l'istinto. Quello di uccidere gli arabi non può essere uno slogan". E. Audisio: "Si scrive per fare ragionare un mondo impazzito?" Rushdie - "Io sono stato uno studente appassionato di storia e dico: chi prima dell'89 credeva possibile che il Muro crollasse e che l'Urss si sciogliesse? Non bisogna per forza essere pessimisti. Quando ero piccolo i miei parlavano di Beirut come di una Parigi mediorientale e di Baghdad, Teheran e Damasco, come di città libere e splendide, mio padre pregava cinque volte al giorno verso la Mecca eppure andò da mio nonno a dubitare: e se Dio non esiste? Parliamone, fu la risposta. Nessu- no lo scomunicò. Mezzo secolo dopo tutto è cambiato e si è inacidito". E. Audisio: "Come ci si racconta quando l'io diventa noi:
e gli altri si ritrovano nella nostra stessa orma? E si è at-
tendibili sulla propria intimità? " Grossman - "Quando ho scritto 'Il Libro della grammatica interiore' ci tenevo a farlo leggere subito ai miei genitori. Mio padre aveva dei dubbi: è bello, ma come faranno a ca- pirlo fuori dalla nostra famiglia? A lui sembrava impossibile che altri si potessero ritrovare nelle mie parole. Quando il li- bro è stato tradotto è stata la mia vittoria. Sono andato da lui e gli ho detto: l'hanno capito benissimo anche all'estero. Se si è sinceri si è universali". Rushdie - "Concordo, la natura umana è costante. Spesso se si è onesti un'emozione privata diventa l'esperienza di tutti, mentre un fatto pubblico, noto e importante, si perde nella sua insensatezza. Voglio dire questo: quando sono stato condannato dalla fatwa, a mia madre che viveva so- la a Karachi, in Pakistan, una città difficile e violenta, gli amici hanno consigliato di togliere il nome dal campanel- lo per sicurezza. Lei ha rifiutato: no e poi no. Non ha rice- vuto una minaccia o un'offesa, anzi ogni mattina al merca- to c'era chi le chiedeva: come sta suo figlio? ce lo saluti molto. C'era un mondo musulmano che aveva capito e non si riteneva offeso dalle mie parole. Certo, non sempre sia- mo attendibili quando parliamo di noi stessi e delle nostre debolezze, ad esempio, ci tenevo che mia moglie Elisabeth leggesse in anteprima la mia autobiografia e fatti in cui era coinvolta, ma lei li ricordava diversamente. E' norma- le: quattro persone siedono in una stanza e ognuno ha la sua versione".
E. Audisio: "Come, quando e dove scrivete: con musica, in
silenzio?". Grossman - "Io all'alba verso le sei di mattina vado a cam- minare per un'ora con mia moglie. Mi piace, a quell'ora vedo volpi e gazzelle, poi scrivo in una stanza per quattro- cinque ore. Con sottofondo di musica classica e di jazz, magari non con tante parole, la musica è magica, mi aiuta ad entrare in un altro mondo ma, ad un certo punto, mi rimetto a camminare su e giù per la stanza, mia moglie dice che calpesto i tappeti e che si vedono i segni di tutti i chilometri che faccio. C'è Agnon, ilo primo e unico scrit- tore israeliano che nel '66 vinse il Nobel, che scriveva in piedi. Davanti aveva il leggìo con il foglio e niente più. Quando finisco, prima di uscire accendo la radio, che mi serve come antidoto alla realtà, mi fa capire che è ora di uscire là fuori".
Rushdie - "Io avevo bisogno del silenzio e del mio studio. Ma nei dieci anni in cui sono stato in fuga e in posti diversi mi sono dovuto adattare a lavo- rare dove capitava. Resta che nei bar non potrei mai. Scrivo di mattina, anche in pigiama. David Mamet ha pubblicato "Writing in Restaurants", J.K. Rowlings ha composto "Harry Potter" se- duta al caffè, beata lei. Ammetto: lì nessuno ti rompe con le telefonate e magari vedere una faccia che ti dà l'ispirazione, ma no, niente mu- sica. Vivo da un pò di anni a Manhattan che per fortuna è piatta. Cammino anch'io, ma di sera, per lioberarmi la testa e per distrarmi. Niente psicanalisi, stimo Freud, grande scrit- tore, ma ogni volta che mi hanno proposto un massaggio alla mente di quel tipo mi sono detto: tutto qui?". E. Audisio: "Rushdie è partito: dall'India verso l'Inghilterra e in America. Grossman lascerà mai Israele?" Grossman -"L'ho pensato in passato per evitare quello che poi è successo, ma non potrei. Io sono fatto di que- sta materia, è un paese di opposti, ma mi commuove il fatto che qui sono arrivati ebrei da tutto il mondo che cercavano una terra, finalmente un posto loro, dopo fughe e persecuzioni. Qui senti un respiro universale, tante culture, tante origini diverse che si mischiano. Mi capita di criticare Israele, ma ca- pisco l'importanza di avere uno Stato. Qui c'è una grande storia umana, se solo riuscissimo a vivere in pace, a fianco, con rispetto. No, non me ne an- drò, io appartengo a questa contraddizione: a questa fragilità che purtroppo spesso si tramuta in violenza".
Perchè ì suonivisione post . 15 degli altri mondi hanno colonizzato l'Occidente
(da 'la Repubblica' RCULT - 23 ottobre 2011 . di Giuseppe Videtti) Trent'anni fa l'Olympia e la Carnegie Hall cominciarono a riempirsi con cantanti come la messicana Chavela Vargas o l'algerino Cheb Khaled: era l'inizio della "world music", e così l'Occidente si apriva ai suoni degli altri mondi. Quella che sembrava una passione di nicchia, si è trasformata oggi in una delle principali risorse di compositori e star; da Bjòrk a Shakira, da Eddie Vedder a Bregovic; l'ibridazione con i ritmi etnici è diventata una risposta alla crisi del pop. E' ormai diventata la nostra colonna sonora: Multiculturale.
Chavela Vargas
Due milioni di persone a Tharir Square, Cairo. La grande piazza non riesce a contenerle. La folla preme dalle grandi arterie del centro, Kasr el Nil, Talaat Harb, fin dalla Ramses Station, dove i fel- lahin arrivano dall'Alto Egitto e dal Delta. Non è la rivoluzione ma un funerale. Il popolo è venuto per l'ultimo saluto a Oum Kalthoum, la più grande cantante del mondo arabo. Contravvenendo alle re- gole islamiche, le autorità sono costrette a postici- pare le esequie di due giorni. Motivi di ordine pub- blico. Non riescono a caricare il feretro sul carro come previsto. gli egiziani reclamano la loro diva, la bara passa di mano in mano, sulle teste di uomini, donne e bambini che piangono "la mamma" e non smettono di cantilenare 'Enta omri", sei la mia vita, la più popolare delle sue canzoni. E' il 4 febbraio 1975. Le immagini dell'addio alla Callas d'Egitto (che nel 1967 fece piangere Marie Lafòret durante un raro concerto all' Olympia di Parigi) fanno il giro delle televisioni di lingua araba, ma l'eco è fievole nel mondo occidentale. Da noi si consumano canzonette da tre minuti, quelle di Oum Kalthoum sono poemi in musica che durano tre quarti d'ora, e per contenerli ci vuole un intero long playing. Non c'è attenzione per le musiche del mondo. Eppure Robert Plant, la voce dei Led Zeppelin, dice che Oum Kalthoum è la sua musa. lo ripete anche Peter Gabriel, che diventerà uno degli ambasciatori delle musiche del mondo.
OUM KALTHOUM
chaka Khan, la soul singer americana, cita tra le sue maestre Yma Sumac, la cantante peruviana più melo- diosa di un usignolo, ma non ci saranno orecchie pronte ad ascoltare "altri suoni" prima del 1982 quando l'etichetta "world music" diventa la ban- diera della comunicazione globale con largo anticipo sull'avvento di internet. I suoni del mondo circolano più facilmente con i flussi migratori, ma trovano affezionati anche tra i fan irriducibili del pop-rock; e i più prestigiosi teatri del mondo, dal Barbican di Londra alla Carnegie Hall di New York, dall' Olympia di Parigi alla Suntory Hall di Tokyo, spalancano le porte a Chavela Vargas, pasio- naria messicana tanto cara a Frida Khalo, Camaron de la Isla, eroe del nuovo flamenco, e Cheb Khaled, travol- gente interprete del raì algerino. Non saranno più solo sporadiche vedette a varcare i confini dell'impero come Edith Piaf e Amalia Rodri- guez, Chevalier e Aznavour o blasonati esponenti di tango e bossa nova che flirtano coi jazzisti americani (Piazzolla e Jobim e Joào Gilberto) o suonatori di sitar indiani arrivati all'orecchio dei rocchettari per buona volontà dei Beatles (vedi Ravi Shankar o contagiosi rasta giamaicani che con reggae e marijuana si intru- folano nelle fantasie rock - la dinastia dei Marley - o frenetici 'mambo kings' sbarcati a Manhattan negli anni d'oro del Palladium - Celia Cruz e Tito Puente - MA una legione di talenti provenienti da deserti remoti, giungle inesplorate, lande sconfinate, villaggi sperduti, steppe ghiacciate, savane che celano nell'ombelico del mondo (Jovanotti) ritmi e tradizioni scampate all'im- perialismo del pop.
La 'world music', da trent'anni a questa parte, è una delle poche certezze del mercato discografico. Con riscontri commerciali che gli etnomusicologi di un tempo neanche avrebbero immaginato: i fratelli Lo- max, che giravano il mondo per registrare voci sul campo, o i discografici che in Italia coraggiosa- mente stampavano canti dell'Angola o saltarelli marchigiani nei dischi Albatros, tanto di nicchia da essere venduti in libreria (come quelli meravi- gliosi pubblicati in Francia da 'Le chant du monde'). E' come se all'improvviso si scoperchiasse un secondo vaso di Pandora rimasto sigillato e ne venissero fuori ritmi, lingue e melodie sconosciute e scatenasse una Babele sonora in cui miracolosamente l'ascoltatore non perde il filo ma prende confidenza con i 'tuva' della Mongolia, le polifonie corse e bulgare, 'morne' e 'coladere' capoverdine, 'lundum' di Sào Tomé e 'ponchack' coreano. Come capita spesso l'arte anti- cipa la società perchè, da anni, è già multiculturale.
Così oggi, nel momento di massima crisi del pop, la world music è una risorsa tanto indispensabile quanto inevitabile. Lo storico duetto Neneh Cherry & Youssou N'Dour - che cantarono 'Seven Seconds' (1994) come se fossero cresciuti insieme e non una a Stoccolma e l'altro a Dakar - ha spalancato le porte a una nuova fusion che, dalle siderali esplorazioni dell'islandese Bjòrk all'ammiccante melisma della colombiana Sha- kira (che ha un solido pedigree mediorientale), dal- l'appassionata collaborazione di Eddie Vedder dei Pearl Jam col principe del qawwali pakistano Nusrat FatehAli Khan (nella colonna sonora di 'Dead man walking') alle travolgenti fanfare zigane di Goran Bregovic, è diventata talmente familiare da rendere plausibile e per niente dissonante persino un duetto fra Celentano e Cesària Evora, la diva scalza di Capo Verde. La world music è ormai la colonna sonora del comune sentire.
Ma la storia ha un inizio. Nel 1982 a Shepton Mallett, in Inghilterra, esordisce il Festival Womad (World of music, arts and dance), che Peter Gabriel finanzia con i proventi della reunion dei Genesis. E' il primo passo per la realizzazione dei Real World Studios a Bath, nel Wiltshire, un sogno che Gabriel cova da anni e realizza nel 1989: una sorta di laboratorio musicale multietnico in un angolo incantato della campagna inglese. La prima compilation pubblicata, 'Passion - Sources', è il manifesto della Real World, con musiche dal Senegal e dall'Egitto, dal Marocco e dall'Iran, dal- l'Armenia e dalla Guinea, dall'Etiopia e dallo Zaire; in soli due anni oltre 75 artisti di 20 paesi del mondo transitano negli studi di Bath.
"Come artista mi sono sempre sentito cittadino del mondo", dice Gabriel. "Avevo una casa in Senegal e mentre scrivevo la colonna sonora per 'L'ultima tentazione di Cristo' di Scorsese, scoprii il duduk, un meraviglioso strumento armeno che Djavan Gasparyan suonava in maniera inimitabile. Il Wo- mad Festival è stato il mezzo che mi ha messo a contatto con decine di incredibili talenti che nes- suno avrebbe mai scritturato in Occidente". Il 'Telegraph' l'ha battezzato "l'angelo custode della world music"; in effetti senza di lui non avremmo conosciuto le esotiche meraviglie del- l'Orchestra Baobab nè il sontuoso melisma di Youssou N'Dour, tantomeno i tamburi del Bu- rundi o le litanie dei monaci tibetani.
Un segreto industriale visione post - 15 molto ben protetto
Dopo essere stata trattata per quasi due anni come un
segreto industriale da tenere nascosto a tutti, per Amy
Winehouse è venuto ora il momento del 'o la va o la
spacca'. Simon Fuller e i Lewinson Brothers sono molto
ammanicati con le principali etichette discografiche e, a
loro parere, la loro protetta è più che pronta al gran salto.
Anzi, di più: "Il signor Fuller mi disse che Amy era così
brava che molto presto gliel'avrebbero strappata dalle
mani", racconta Alex Winehouse, il fratello più grande di
Amy, che in quel periodo aveva intrapreso la sua carriera
di drammaturgo e di regista teatrale ed era molto preoccu-
pato per la sorella, "non mi sembrava che stesse azzardan-
do una previsione. Era così sicuro da farmi pensare che a-
vesse già più di un asso nella manica". Difficile sapere se fosse davvero così o se quello del- l'agente fosse solo un giudizio lusinghiero dettato da anni ed anni di esperienza. Fatto sta, che per Amy arrivò presto la svolta determinante per la sua carrie- ra. - A raccontarla, un anno dopo, fu quello stesso Darcus Breese, suo futuro personal manager per con- to della Island/Universal, l'etichetta major che la mise sotto contratto: "Spesso parlavo al telefono con i miei amici della Lewinson", spiega, "e un giorno mi disse- ro di passare da loro che avevano qualcosa da farmi sentire. Stavano lavorando su un pò di artisti e deside- ravano che io dessi un'ascoltata ai loro pezzi. Andai da loro e mi misi le cuffie. Subito mi fecero ascoltare un paio di pezzi pop e un gruppo rock. Niente di ecce- zionale. Era strano, perchè quelli erano manager seri, che difficilmente mi facevano andare da loro se non pensavano di avere un asso nella manica. E di assi tra quelli che avevo ascoltato ce n'erano ben pochi. Stavo per andarmene quando, come per caso, mi chisesero di ascoltare ancora un paio di pezzi di una cantante jazz-soul che avevano sotto contratto. Era incredibile. Quando gli chiesi chi era, loro fecero i vaghi. Non riuscii a farmi dare il nome neppure pre- gandoli in ginocchio. Dissero che era una ragazza molto giovane di cui stavano registrando alcuni pezzi. E che a tempo debito mi avrebbero detto tutto e organizzato il provino". - Nella Londra dell'under- ground la prudenza non era mai troppa, Breese lo sapeva bene. Se si fosse sparsa la voce in giro che c'era una cantante così, con tutto quel talento, lei sarebbe stata sommersa di richieste, proposte, illu- sioni. Alcune serie, alcune no. Avrebbe avuto una fila di cialtroni alla sua porta pronti a offrirle di tut- to un pò pur di convincerla a cambiare manager e a mettersi con loro. E i Lewinson Brothers non era- no tipi da farsi soffiare dalle mani la gallina dalle uova d'oro.
Ma neppure Breese era un tipo alle prime
armi: "Feci un pò di telefonate in giro", spiega, "e presto venni a sapere un nome, Amy Wine- house. Era davvero lei la padrona della voce che avevo ascoltato?". Una volta avuta l'infor- mazione ci mise due settimane per convincere Simon Fuller a far firmare la sua protetta con la Universal, la casa discografica che lui rap- presentava. Si trattava solo di un pre-contrat- to: Amy avrebbe inciso alcuni pezzi, poi lui ne avrebbe parlato ai piani alti e, in caso di rispo- sta positiva, le avrebbe fatto incidere il suo primo cd. In realtà, i Lewinson Brothers ave- vano ricevuto anche una proposta dalla eti- chetta concorrente EMI per cui stavano già mettendo a punto un 'demo tape'. Ma la proposta di Breese era decisamente più accattivante, anche perchè avrebbe per- messo a Amy di crescere ulteriormente. E soprattutto perchè garantiva all'artista di mantenere il suo stile musicale senza i con- dizionamenti da classifica. - Un ulteriore punto a suo favore fu il nome del produttore a cui aveva deciso di abbinare la nuova entra- ta in casa Universal: Salaam Remi aveva già lavorato con Toni Braxton, Nelly Furtado, The Fugees, Nas e Fergie. Secondo Fuller era il tipo giusto per lavorare con Amy anche perchè era uno che sapeva ottenere il meglio dagli artisti che gli venivano sottoposti. Nel giro di un mese la ragazza entra in studio, con una band tutta sua, in rampa di lancio per il mondo delle stelle a sette note.
Francamente... Frank
Amy è francamente entusiasta. Scrive a getto continuo nuovi pezzi, canta, attangia. Non si perde un passaggio. Con Remi lega subito, anche se lui la costringe a restare sobria e ben presente a se stessa. Sono entrami am- biziosi, decisi a usare al meglio quell'occasio- ne unica. Il produttore è convinto di avre tra le mani una voce straordinaria e sa come pla- smarla per farla rendere al massimo. Presto i primi pezzi sono pronti e Breese decide di presentare Amy al suo boss, Nick Gatfield, che è quello che deve decidere se stanziare o no i soldi del suo album d'esordio. Quando entra nell'ufficio del suo superiore, il perso- nal manager della giovane cantante non ha alcun dubbio sulla riuscita della sua missione.
E ha ragione, perchè anche Gatfield capisce subito di avere tra le mani un'autentica bomba pronta ad esplo- dere e dà subito il suo assenso al progetto di un primo disco: "Non ho pensato neppure per un attimo che po- tesse dirmi di no", spiega ora Darcus Breese, "con Amy si era creata quella miscela esplosiva che chi fa musica ben conosce. Quella che ti fa muovere a ritmo, che lega l'anima dell'artista a quella di chi lavora con lui. Gli ingredienti per il successo c'erano tutti. C'era una sorta di eccitazione nell'aria. Sapevo che Amy da un lato era un rischio: era una cantante ati- pica, legata a generi come il soul e il jazz che non hanno un grandissimo pubblico, soprattutto in In- ghilterra. Ma lei era perfetta: aveva un gran look, una grande presenza scenica, grandi canzoni e una voce incredibile. Cosa poteva servirle di più per sal- pare le ancore? Forse un pò di fortuna. Ma io sono sempre stato un tipo fortunato". Da parte sua Amy non andrebbe neppure a dormire tanto è felice ed entusiasta. E anche Remi sembra convinto che quella adolescente tutta pelle ossa e tatuaggi, abbia le carte in regola per sfondare. Per prima cosa passa in rassegna i pezzi scritti dalla ragazza, ma li scarta tutti tenendo solo la bella 'I Heard Love is Blind' che sembra avere una marcia in più rispetto alle altre. Insieme decidono di riscrivere il resto dell'album da ca- po: è un lavoro lungo e non semplice, ma men- tre nascono piccoli capolavori come Stronger Than Me, Take the Box, In My Bed, You Sent Me Flying, Pumps e Help Yourself, l'entusia- smo fa sì che non si senta la fatica. Continua... to be continued...
e la mostra Magnum sul Set, con i ritratti dei protagonisti del mondo del cinema, il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri conclude la rassegna di esposizioni dedicate all'agenzia Magnum Photos, con una mostra che rende omaggio ad uno dei più importanti fotografi del xx secolo: Robert Capa.
Soldato bambino
Honkou, Cina, 1938
Henri Matisse
Cimiez, Nizza, Francia agosto 1949
Morte di un miliziano lealista
Fronte di Cordova, Spagna
inizio settembre 1936
Sbarco delle truppe americane
a Omaha Beach, Normandia,
Francia, 6 giugno 1944
Contadino indica ka direzione
presa dai tedeschi nei pressi di Traino, Sicilia Italia, 4 - 5 agosto 1943
Il percorso espositivo, costituito da 110 fotografie in bianco e nero, si apre con il primo reportage realizzato nel 1932 a Copenhagen durante una conferenza di Leon Trotsky, durante la quale il fuoriuscito russo mise a nudo, per la prima volta, la violenza dello stalinismo.
Si ripercorrono poi, attraverso le dense immagini di Capa, gli anni del Fronte Popolare a Parigi, la guerra di Spagna, l’invasione giapponese della Cina, per arrivare allo scoppio della Seconda guerra mondiale, che il fotografo seguì sui diversi fronti di battaglia fino allo sbarco in Normandia e alla liberazione di Parigi.
Seguono i suoi reportage in Unione Sovietica nel 1947 e in Israele nel 1948, dove documenta la nascita dello stato ebraico, e quello in Indocina, dove perderà la vita saltando su una mina antiuomo il 25 maggio 1954.
Tunisia, 1943 - The American Fighter ace. Pilot LARDNER
in the cockpit
ROBERT CAPA nella mostra di Verona
John Steinbeck una volta scrisse che il suo amico Robert Capa sapeva che "non si può fotografare la guerra perchè questa è soprattutto un'emozione". Tuttavia, continuava Steinbeck "riuscì a fotografare questa emozione perchè scattava le sue foto stando accanto ad essa: ha potuto mostrare l'orrore di un intero popolo nel volto di un bambino". La mostra , costituita da 110 fotografie in bianco e nero, allestita presso il Centro Internazionale di Fotografia dal 24 marzo al 16 settembre 2012, è stata realizzata da Magnum Photos, la famosa agenzia che lo stesso Capa aveva fondato nel 1947 con Henri Cartier-Bresson e David Seymour, per rendere omaggio ad uno dei più importanti e influenti fotografi del XX secolo. Si inizia con il primo reportage realizzato nel 1932 (Capa aveva 19 anni) a Copenhagen durante una conferenza di Leon Trotsky, durante la quale il fuoriuscito russo mise a nudo, per la prima volta, la violenza dello stalinismo. Si ripercorrono poi, attraverso le dense immagini di Capa, gli anni del Fronte Popolare a Parigi, la guerra di Spagna, l'invasione giapponese della Cina per arrivare allo scoppio della Seconda guerra mondiale, che il fotografo seguì sui diversi fronti di battaglia fino allo sbarco in Normandia e alla liberazione di Parigi. Seguono i suoi reportage in Unione Sovietica nel 1947 e in Israele (1948) dove documenta la nascita dello stato ebraico, e quello in Indocina dove perderà la vita saltando su una mina antiuomo il 25 maggio 1954. Il percorso della mostra si conclude con una serie di ritratto degli amici di Capa, famosi artisti come Ernest Hemingway, William Faulkner, Henry Matisse e Pablo Picasso.
AGGIORNAMENTO Visioni post - 78 mese: aprile >>> giorno: mercoledì 14 >> anno: 2021 Totale post >>> 21.431 ITALIA 5727 Stati Uniti 3116 Russia 2835 Germania 638 Francia 729 Polonia 408 Ucraina 303 Emirati Arabi Uniti 175 Irlanda 127 Serbia 106 Regno Unito 97 Singapore 67 / Svizzera 59 / Svezia 39 / Cina 32 / Paesi Bassi 28 / Portogallo 25 / Repubblica ceca 9 / Brasile 7 / Indonesia 5 / Belgio, India, Lituania, Malesia 4 Canada 3 Cile 2 Finlandia 2 Argentina 1 Austria 1 Corea del Sud 1 Danimarca 1 Georgia 1 Grecia 1 Kazakistan 1 India 1 Israele 1 Mongolia 1 Romania 1 San Marino 1 Slovenia 1 Spagna 1 Sri Lanka 1 Taiwan 1 Turchia 1 Trinidad e Tobago 1 Ungheria 1
Jack Kerouac è uno degli scrittori americani da me
preferiti. E non solo perchè è il padre della Beat
Generation (poi è venuto Allen Ginsberg, il poeta
della B. G.), ma poichè è stata la scoperta che allo-
ra, nel '68, tanti di noi giovani hanno fatto per an-
dare a coprire una mancanza di paternità, ormai
persa in conseguenza delle contestazioni contro
il sistema e i padri che lo rappresentavano. E se
negli States la strada alla contestazione era stata
aperta anche da Kerouac con il suo libro.bibbia
"On the road" ('Sulla strada') nei primi anni sessan-
ta, in Italia arrivò tutto più tardi ma con non minore
impatto sociale-culturale.
Ma prima del suo capolavoro ("On the road") lo
scrittore americano fece le prove generali con
"Il mare è mio fratello", il suo primo romanzo che
si credeva perduto
Jack Kerouac
Prima della Strada: "Il mare è mio fratello"
- Nelle vene dell'America
Tracciato con i piedi del primo essere umano che dall'America arrivò a calpestare il suolo di un continente ignoto, il sentiero della mobilità è da almeno dodicimila anni la via maestra, la verità, la vita del popolo che noi chiamiamo americano. Non inventò davvero nulla Jack Kerouac con la sua "beat generation" di nomadi perennemente 'on the road', perchè l'essere in continuo cammi- no, e possibilmente senza una meta, è la condizione umana naturale, la "libido", direbbe Sigmund Freud che la accomunava al moto delle pulsioni, che muove ogni americano. Quello che i giovani americani sopravvissuti alla guerra intercontinentale ritrovarono, nella lettera- tura come nel cinema degli ultimi anni '40 e '50, fu il filo della cultura che era tessuta nei fili dei propri cromosomi. O se non dei loro, certamente di coloro che li avevano preceduti imboccando, a piedi attraverso lo stretto di Bering, o sulle rotte del mare, la strada che li aveva spinti via dalle proprie radici. Anche l'espressione "nativi" riservata alle nazioni indiane che subirono l'invasione europea è più po- liticamente che etnograficamente corretta. Nonostante gli stupendi miti di creature sbocciate dalla madre terra o partorite dalle conchiglie, anche i "nativi" erano stati migranti. - Il viaggio Il viaggio, nella mitologia che il dopoguerra partorì e che travolse generazioni di giovani non americani, sembrò essere, fin dalle prime opere di Kerouac, come questo inedito, "Il mare è mio fratello" (poi di Ginsberg, un segnale di ribellione allo status quo imposto dalla propria nascita dal proprio genere, dalla morale familia- re, dalla società pasciuta e ipocrita nata dal trionfo mili- tare del 1945.
Il giovane Holden? Era una spia Usa e sposò una nazista Dalla Germania arrivano le prove che J. D. Salinger , a guerra finita, lavorò per i servi- zi americani. E interrogò, come seguace del Fùhrer, quella che sarebbe diventata la sua prima moglie. Lo si è saputo quasi per caso, grazie a una signora che gli fece da cuoca,
(da 'il Venerdì di Repubblica' / esteri - Pagine perdute . 23 ottobre 2009 - Lisa Grunenberg)
"Non avevo idea che quell'americano tanto carino scrivesse libri", è stato il commento di Hedwig Stùbing, signora ottantacinquenne di Gunzenha- usen, in Baviera, quando le è stato spiegato chi fosse quel giovane presso cui aveva lavorato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non uno scrittore qualsiasi, peraltro, ma Jerome David "J. D." Salinger, mito della letteratura contem- poranea, autore del "Giovane Holden", e titolo originale : "The Catcher in the rye".
Come molti sanno, nel 1953 Salinger si ritirò
nella sua casa di campagna a Cornish, nel New
Hampshire, travolto dal successo del suo celebre romanzo, terminato nel '51. Da allora, le notizie trapelate su Salinger sono rarissime. E ancora oggi, più che novantenne (nel 2009 - Salinger è morto il 27 gennaio 2010 ndr.), rifiuta qualsiasi contatto con il mondo esterno. E la sua giovinezza, in particolare la sua partecipazione alla Seconda guerra mondiale nel 12°reggimento di fanteria del- l'esercito americano, continua a nascondere aspet- ti mai chiariti. Un sorprendente contributo per fare luce su questo periodo arriva da Gunzenhausen, un piccolo centro non lontano da Norimberga, e dalla signora Stùbing. Già si sapeva che il grande romanziere aveva trascorso in Baviera alcuni mesi. Salinger usciva da esperienze durissime. Aveva preso parte alla sanguinosa batta- glia di Thankirchen (il villaggio che i nazisti, nono- stante la disfatta fosse prossima, si rifiutarono di ce- dere e che alla fine fu raso al suolo dagli Alleati), ed era stato tra i primi soldati a entrare nel campo di concentramento di Dachau, liberato dagli americani il 29 aprile del 1945. "Non puoi più toglierti la puzza di carne bruciata dal naso, non importa quanto a lun- go tu viva" confessò anni dopo alla figlia Margaret. Il carico emotivo divenne insopportabile, tanto che Salinger fu ricoverato nel reparto psichiatrico del- l'ospedale militare di Norimberga per 'battle fatigue' (stress per traumi da combattimento), come testimo- nia una lettera scritta da lì nel luglio del 1945 a Ernest Hemingway, conosciuto l'anno prima a Pa- rigi. Dimesso dall'ospedale, Salinger si congeda anche dall'esercito. Non torna però subito negli Stati Uniti: decide di rimanere in Germania e firma, questa volta come civile, un nuovo contratto di sei mesi con l'esercito. - Sulle ragioni che lo avevano trattenuto e sul tipo di attività da lui svolta erano finora state possibili solo delle congetture.
Il Military History Office di Heidelberg non aveva potuto fornire dettagli sulla sua presenza, o chiari- re che ruolo avesse svolto. Poi, lo scorso settembre (2009 ndr.), la signora Stùbing ha letto un articolo del 'Nùrnberger Nachrichten', un quotidiano regio- nale che rievocava il soggiorno dello scrittore a Gunzenhausen. E si è ricordata di quell'americano "così carino", per il quale aveva lavorato, come cuo- ca e cameriera, dal gennaio al marzo del 1946. Sopratutto, ha tirato fuori dalle sue vecchie carte una lettera di referenze, sctitta su un foglietto di carta sottile e quasi trasparente, firmata da Salinger. La allora "signorina Kugler" viene definita nella lettera una persona "diligente e capace, la cui one- stà e lealtà sono indiscutibili". - Il dettaglio più interessante è però la qualifica con cui Salinger si firma: Special Investigator, Cic, Caf 10. La sigla Caf 10 indica il grado di capitano. Cic sta invece per Countern Intelligence Corps, l'agenzia di spio- naggio dell'esercito americano. La reference letter, conservata per più di 60 anni dalla signora Stùbing, è la prova che lo scrittore nei mesi successivi alla fine della guerra era an- cora impegnato in attività di intelligence contro- spionaggio per l'esercito americano. Già nel 1944 Salinger era stato reclutato nel Cic per la sua per- fetta conoscenza del tedesco, di cui si ricorda bene anche la signora Stùbing. Nel dopoguerra l'agenzia di spionaggio dell'esercito americano si era dedicata soprattutto a un'attività di "denazificazione" della Germania occupata. In questa luce si comprende quindi meglio la presenza del giovane capitano a Gunzenhausen, considerato un covo di nazisti. Dall'archivio della cittadina è inoltre spuntata una foto di 3 soldati americani. Uno di loro è in borghe- se e, secondo l'archivista Werner MùhlhàuBer, quel giovane sorridente potrebbe essere proprio Salinger. Lì lo scrittore si era stabilito nella lussuosa Villa Schmidt nel novembre del 1945 con la prima moglie Sylvia Welter, un'oculista tedesca sposata in ottobre. Anche le circostanze in cui i due si erano conosciuti sembrerebbero potersi ricondurre all'atività di con- trospionaggio svolta da Salinger. In 'Dream Catcher', la sua biografia del padre non autorizzata, Margaret Salinger sostiene che la prima moglie, morta l'anno scorso (nel 2008 - ndr.), fosse una fervente nazista e che i due si fossero conosciuti addirittura durante un interrogatorio. Da una casa di riposo di Erlangen, però, Hildegard Mayer, amica e compagna di scuola di Sylvia Welter smentisce. "Tutte sciocchezze. Sylvia era una bellissima ragazza, che aveva cervello e senso dell'umorismo. Non aveva niente a che fare con i na- zisti". La coppia ripartì per New York nell'aprile del 1946, ma la giovane moglie tedesca non fu mai accettata dalla famiglia ebrea dello scrittore. Dopo soli otto mesi , tornò in Europa. Lasciando Salinger solo con i suoi fantasmi e la scrittura del suo capolavoro.
IL SALINGER
SORPRENDENTE Al più grande eremita della letteratura mondiale piaceva mangiare gli hamburger nei fast-food, bere birra nei pub, fare gite turistiche in pullman alle ca- scate del Niagara e al Grand Canyon, andare allo zoo, guardare gli sceneggiati in tv, ascoltare Pava- rotti e coltivare l'orto. J.D. Salinger era insomma una persona normale, non il recluso che i media e il suo stesso compor- tamento hanno fatto credere. E' indubbio che il romanziere americano, dopo avere conquistato fama internazionale nel 1951 con "Il giovane Holden", pubblicò poco altro, evitò stampa e no- torietà come la peste e visse sempre in una citta- dina del New Hampshire, fino alla morte nel 2010. Ma decine di lettere inedite venute alla luce di recente, scritte da Salinger a un vecchio amico, rivelano che l'immagine di un solitario strambo che si nasconde da tutto e tutti non corrisponde minimamente alla realtà.