mercoledì 19 dicembre 2012

Musica / Sezione jazz - Dave Brubeck e il suo piano

Recording live at Newport Jazz Festival         visione post - 112
THE DAVE BRUBECK QUARTET
       (featuring Paul Desmond)














Recorded live at the Newport Jazz Festival (1953),
this Dave Brubeck recording is, among the
vast  production  of the artist, the one that
obtained the largest success with his fans
in the U,S,A,
Brubeck has been considered by the public as well as 
the professionals as the most popular jazzman of the
West Coast.
The  compositions  performed  in this album  are
standards of jazz. Brubeck and Desmond largely
improvise on these themes and seem to be at the
best of their capacity.
I'll never smile again, a side from solos by Brubeck
and Desmond, has a bass solo by Ron Crotty.
Let's fall in love gets a slight Christmas Carol sound
in the beginning and Brubeck has a solo of an unusual
mood.   Desmond, of course,  is  heard  at length  and
Crotty is also given time for a short statement.
Sturdust shows the pattern with which the group has
always played it.   The audience applause following
Desmond's long improvisation, quickly brings to mind
the  familiar  picture  of  Desmond  acknowlodging  it
with a light smile, hands folded over the saxophone as
he steps back to stand, with head  cocked to one side,
listening attentively  to the chorus  by Brubeck which
followed.
All the things you are is  a bright number  with Paul
beginning  his  solo  with a light, almost clarinet tone
and Dave  interpolating  a quote from "My Man" into
his solo. Note particularly the way in  which Desmond
creeps in his own solo on the tail of Brubecks's closing
phrase.The two then begin their celebrated dual impro-
visation.
Why do I love you is the shortest piece  in the album
and is almost a "tour the force" for Desmond. Brubeck
enters closely tied  to Desmond's solo  and there is an
interesting passage  by both  before the bright duet  at
the end.
Too marvelous for words has an interesting Brube-
ckian touch  of almost  boogie woogie  trilling  in the
in the middle  of the piano solo which follows Paul's
opening improvisation.     You may catch an eco of
"Digga Digga do"  in Brubeck's chorus  prior to the
entry of Ron Crotty for his last bass solo on the al-
bum.    -    The ending of this tune and the album is
replete with the double echoes of alto and piano as
Paul and Dave again join musical thoughts.
CONTINUA... to be continued...

lunedì 26 novembre 2012

Gli scrittori David Grossman e Salman Rushdie

Grossman, ebreo, e Rushdie, musulmano,            
dicono: "Ci siamo salvati scrivendo"
Per la prima volta i due scrittori si sono incontrati e hanno
raccontato a Emanuela Audisio di 'Repubblica' (18/11/'12)
come combattono l'odio e il dolore.

I fanatismi, il dolore, le piccole abitudini riconquistate.
Seduti in un caffè milanese,  per  la  prima  volta  i due
scrittori si incontrano faccia a faccia. E si raccontano.
Grossman:    "Quando mio figlio è morto in guerra ho
creduto che non avrei più trovato la forza di scrivere".
Rushdie:  "Dopo la fatwa l'ho pensato anch'io".
Sapessi come è strano  per David e Salman  incontrarsi
e parlarsi davanti ad un cappuccino a Milano.   Lo scrit-
tore ebreo e quello musulmano per la prima volta faccia
a faccia.    Amici nonostante la lontananza geografica e
religiosa. E con lo stesso nemico: il fanatismo .
Grossman nato a Gerusalemme nel '54 e Rushdie nel '47.
David che vive su un fronte di guerra presente  ("E'terri-
bile stare lontano  dal proprio paese  in un momento così
drammatico) e Salman che non aveva un fronte, perchè
sotto la fatwa qualsiasi strada poteva esserlo. L'israelia-
no e l'indiano, due padri, uniti dall'aver pagato anche in
famiglia un alto prezzo per quel fronte. -
I due scrittori  nel loro ultimo lavoro hanno concesso la
loro intimità ai lettori: Grossman  in "Caduto fuori dal
tempo" a metà tra poesia e prosa scrive di genitori che
hanno perso il figlio e Rushdie in "Joseph Anton"  parla
in terza persona di cosa gli capitò da quando il giorno di
di San Valentino dell'89 l'ayatollah Khomeini lo condan-
nò a morte per i Versi satanici.
"Caduto fuori dal tempo"  e  "Joseph Anton", editi da
Mondadori, sono due libri disperati e teneri, due diari
pubblici di un dolore privato.
 Salman Rushdie







E. Audisio: "Venite da paesi e da infanzie diverse, c'è una
parola, un tema che vi accomuna?".
Rushdie - "Credo sia il linguaggio, la flessibilità, le sfuma- 
ture, il fatto di non dargliela vinta  a chi vorrebbe volgarità
e violenza. Non ci abbassiamo. Cerchiamo il punto di vista
degli altri, il dialogo, non sottovalutiamo  nè disprezziamo 
altri pareri e sguardi. Entrambi abbiamo messo la famiglia
al  centro  dei  nostri racconti, guardiamo agli individui, a
speranze e desideri, tutto e tutti ci sembrano degni di curio-
sità, bisogna sapere, conoscere, rispettare.  Non siamo co-
me i Talebani che odiano il piacere.  Infatti cosa vietano? 
La musica. la danza, il cinema. Qualsiasi cosa dia piacere
e gioia.    La loro idea  è che solo  dopo la morte ci sia la
vita, dunque  tutto quello  che emoziona  su questa terra 
non vale la pena".
Grossman - "Sì, Salman ha ragione.  Noi cerchiamo di
capire le ragioni e le vite altrui, strizziamo le parole, le
valutiamo. Non scriviamo per sfogarci. E' spaventoso
che in questo momento a Gerusalemme la mia nipotina
di quattro mesi sia in un rifugio, che idea si farà dell'esi-
stenza?    Ma questo non significa ignorare che anche i
palestinesi hanno i loro diritti.
Non dobbiamo amarli, ma conoscere  le  loro privazioni sì,
non sono  estranei  da  lasciare fuori, non puoi solo vivere
l'ignoranza e  condannare  gli  altri  e  guerreggiare.   Noi
scrittori non abbiamo eserciti e nemmeno possiamo finan-
ziare armamenti.    La nostra resistenza deve essere civile, 
magari con piccoli gesti, con analisi che non siano visce-
rali. Noi possiamo smonatere l'odio dei fanatismi o almeno
provarci. Abbiamo il potere di ricordare agli altri che c'è
un'alternativa, anche contro la realtà, la logica e l'istinto.
Quello di uccidere gli arabi non può essere uno slogan".
E. Audisio: "Si scrive per fare ragionare un mondo impazzito?"
Rushdie - "Io sono stato uno studente appassionato di
storia e dico: chi prima dell'89 credeva possibile che il
Muro crollasse e che l'Urss si sciogliesse? Non bisogna
per forza essere pessimisti.   Quando ero piccolo i miei
parlavano di Beirut come di una Parigi mediorientale 
e  di Baghdad, Teheran e Damasco, come di città libere
e splendide, mio padre  pregava  cinque volte al giorno
verso la Mecca eppure andò da mio nonno a dubitare:
e se Dio non esiste? Parliamone, fu la risposta. Nessu-
no lo scomunicò. Mezzo secolo dopo tutto è cambiato
e si è inacidito".
E. Audisio: "Come ci si racconta quando l'io diventa noi:
e gli altri si ritrovano nella nostra stessa orma? E si è at-
tendibili sulla propria intimità? "
Grossman - "Quando ho scritto 'Il Libro della grammatica
interiore' ci tenevo a farlo leggere subito  ai miei genitori.
Mio padre aveva dei dubbi: è bello, ma come faranno a ca-
pirlo fuori dalla nostra famiglia? A lui sembrava impossibile
che altri si potessero ritrovare nelle mie parole. Quando il li-
bro è stato tradotto è stata la mia vittoria. Sono andato da lui
e  gli  ho detto:  l'hanno  capito  benissimo  anche  all'estero.
Se si è sinceri si è universali".
Rushdie - "Concordo, la natura umana è costante.  Spesso
se si è onesti  un'emozione privata  diventa l'esperienza di
tutti, mentre un fatto pubblico, noto e importante, si perde
nella sua insensatezza.    Voglio dire questo: quando sono
stato  condannato dalla fatwa, a mia madre che viveva so-
la a Karachi, in Pakistan, una città difficile e violenta, gli
amici hanno consigliato di togliere il nome dal campanel-
lo per sicurezza. Lei ha rifiutato: no e poi no. Non ha rice-
vuto una minaccia o un'offesa, anzi ogni mattina al merca-
to c'era chi le chiedeva:  come sta suo figlio?  ce lo saluti
molto. C'era un mondo musulmano che aveva capito e non
si riteneva offeso dalle mie parole. Certo, non sempre sia-
mo attendibili quando parliamo di noi stessi e delle nostre
debolezze, ad esempio, ci tenevo che mia moglie Elisabeth
leggesse  in anteprima  la mia autobiografia e  fatti in cui
era coinvolta, ma lei li ricordava diversamente. E' norma-
le: quattro persone siedono in una stanza e ognuno ha la 
sua versione".
E. Audisio: "Come, quando e dove scrivete: con musica, in
silenzio?".
Grossman - "Io all'alba verso le sei di mattina vado a cam-
minare  per un'ora  con mia moglie.  Mi piace, a quell'ora
vedo volpi e gazzelle, poi scrivo in una stanza per quattro-
cinque ore.  Con sottofondo  di musica classica  e  di jazz,
magari non con tante parole, la musica è magica, mi aiuta
ad  entrare  in  un altro mondo  ma, ad un certo punto, mi
rimetto  a camminare  su e giù  per la stanza, mia moglie
dice che calpesto i tappeti e che si vedono i segni di tutti
i chilometri che faccio. C'è Agnon, ilo primo e unico scrit-
tore israeliano che nel '66 vinse il Nobel, che scriveva in
piedi. Davanti aveva il leggìo  con il foglio  e niente più.
Quando finisco, prima  di uscire  accendo la radio, che
mi serve  come antidoto  alla realtà, mi fa capire che è
ora di uscire là fuori".

Rushdie - "Io avevo bisogno del silenzio e del mio
studio. Ma nei dieci anni in cui sono stato in fuga
e in posti diversi mi sono dovuto adattare a lavo-
rare dove capitava. Resta che nei bar non potrei
mai. Scrivo di mattina, anche in pigiama. David
Mamet  ha pubblicato "Writing in Restaurants",
J.K. Rowlings ha composto "Harry Potter" se-
duta al caffè, beata lei. Ammetto: lì nessuno ti
rompe  con le telefonate  e magari vedere una
faccia che ti dà l'ispirazione, ma no, niente mu-
sica.   Vivo da un pò di anni a Manhattan che
per fortuna è piatta. Cammino anch'io, ma di
sera, per lioberarmi la testa e per distrarmi.
Niente psicanalisi, stimo Freud, grande scrit-
tore, ma ogni volta che mi hanno proposto
un massaggio alla mente di quel tipo mi sono
detto: tutto qui?".
E. Audisio:  "Rushdie è partito:  dall'India
verso l'Inghilterra e in America. Grossman
lascerà mai Israele?"
Grossman - "L'ho pensato in passato per evitare quello
che poi è successo, ma non potrei. Io sono fatto di que-
sta materia, è un paese di opposti, ma mi commuove
il fatto che qui sono arrivati ebrei da tutto il mondo
che cercavano  una terra, finalmente un posto loro,
dopo fughe e persecuzioni.      Qui senti un respiro
universale, tante culture, tante origini diverse che
si mischiano. Mi capita di criticare Israele, ma ca-
pisco l'importanza di avere uno Stato. Qui c'è una
grande storia umana, se solo riuscissimo  a vivere
in pace, a fianco, con rispetto. No, non me ne an-
drò, io appartengo  a  questa  contraddizione:  a
questa fragilità che purtroppo spesso si tramuta
in violenza".

Continua... to be continued...

mercoledì 31 ottobre 2012

Musica - La WORLD MUSIC: canzone globale

 Perchè ì suoni         visione post . 15
degli altri mondi
hanno colonizzato l'Occidente

(da 'la Repubblica'  RCULT - 23 ottobre 2011 . di Giuseppe Videtti)
Trent'anni fa l'Olympia e la Carnegie Hall
cominciarono a riempirsi con cantanti come
la messicana Chavela Vargas o l'algerino
Cheb Khaled: era l'inizio della "world music",
e così l'Occidente si apriva ai suoni degli altri
mondi. Quella che sembrava una passione di
nicchia, si è trasformata oggi in una delle
principali risorse di compositori e star; da
Bjòrk a Shakira, da Eddie Vedder a Bregovic;
l'ibridazione con i ritmi etnici è diventata una
risposta alla crisi del pop.  E' ormai diventata
la nostra colonna sonora: Multiculturale.

Chavela Vargas
Due milioni di persone a Tharir Square, Cairo.
La grande piazza non riesce a contenerle. La folla
preme dalle grandi arterie del centro, Kasr el Nil,
Talaat Harb, fin dalla Ramses Station, dove i fel-
lahin arrivano dall'Alto Egitto e dal Delta. Non
è la rivoluzione ma un funerale. Il popolo è venuto
per l'ultimo saluto a Oum Kalthoum,  la più grande
cantante del mondo arabo. Contravvenendo alle re-
gole islamiche, le autorità  sono costrette a postici-
pare le esequie di due giorni. Motivi di ordine pub-
blico. Non riescono a caricare il feretro sul carro
come previsto. gli egiziani reclamano la loro diva,
la bara passa di mano in mano, sulle teste di uomini,
donne e bambini che piangono "la mamma" e non
smettono di cantilenare 'Enta omri", sei la mia vita,
la più popolare delle sue canzoni.
E' il 4 febbraio 1975. Le immagini  dell'addio alla
Callas d'Egitto (che nel 1967 fece piangere Marie
Lafòret durante un raro concerto all' Olympia di
Parigi)  fanno il giro  delle televisioni  di lingua
araba, ma l'eco è fievole nel mondo occidentale.
Da noi  si consumano canzonette  da tre minuti,
quelle di Oum Kalthoum sono poemi in musica
che durano tre quarti d'ora,  e per contenerli ci
vuole un intero long playing.
Non c'è attenzione per le musiche del mondo. Eppure
Robert Plant, la voce dei Led Zeppelin, dice che Oum
Kalthoum è la sua musa. lo ripete anche Peter Gabriel,
che diventerà uno degli ambasciatori delle musiche del
mondo.
            OUM  KALTHOUM

chaka Khan, la soul singer americana, cita tra le sue
maestre Yma Sumac, la cantante peruviana più melo-
diosa di un usignolo, ma  non  ci  saranno  orecchie
pronte ad ascoltare "altri suoni"   prima del 1982 
quando l'etichetta  "world music"  diventa  la ban-
diera della comunicazione globale con largo anticipo
sull'avvento di internet.
I suoni del mondo circolano più facilmente con i
flussi migratori, ma trovano affezionati anche tra
i fan irriducibili del pop-rock; e i più prestigiosi teatri
del mondo, dal Barbican di Londra alla Carnegie Hall
di New York, dall' Olympia di Parigi alla Suntory Hall
di Tokyo, spalancano le porte a Chavela Vargas, pasio-
naria messicana tanto cara a Frida Khalo, Camaron de
la Isla, eroe del nuovo flamenco, e Cheb Khaled, travol-
gente interprete del raì algerino.
Non saranno più  solo sporadiche vedette  a varcare i
confini dell'impero  come Edith Piaf e Amalia Rodri-
guez,  Chevalier e Aznavour o blasonati esponenti di
tango e bossa nova che  flirtano coi jazzisti americani 
(Piazzolla e Jobim e Joào Gilberto) o suonatori di sitar
indiani arrivati all'orecchio dei rocchettari per buona
 volontà dei Beatles (vedi Ravi Shankar o contagiosi
rasta giamaicani che con reggae e marijuana si intru-
folano nelle fantasie rock - la dinastia dei Marley - o
frenetici 'mambo kings' sbarcati a Manhattan negli
anni d'oro del Palladium  - Celia Cruz e Tito Puente -
MA una legione di talenti provenienti da deserti remoti,
giungle inesplorate, lande sconfinate, villaggi sperduti,
steppe ghiacciate, savane che celano nell'ombelico del
mondo (Jovanotti) ritmi e tradizioni scampate  all'im-
perialismo del pop.




La 'world music', da trent'anni a questa parte, è una
delle poche certezze del mercato discografico.   Con
riscontri commerciali  che gli etnomusicologi di un
tempo neanche avrebbero immaginato: i fratelli Lo-
max, che giravano il mondo per registrare voci sul
campo, o i discografici  che  in Italia  coraggiosa-
mente stampavano  canti dell'Angola  o saltarelli
marchigiani nei dischi Albatros, tanto di nicchia
da essere venduti in libreria (come quelli meravi-
gliosi pubblicati in Francia da 'Le chant du monde').
E' come se all'improvviso si scoperchiasse un secondo
vaso di Pandora rimasto sigillato e ne venissero fuori
ritmi, lingue e melodie sconosciute e scatenasse una
Babele sonora in cui miracolosamente l'ascoltatore
non perde il filo ma prende confidenza con i 'tuva'
della Mongolia, le polifonie corse e bulgare, 'morne'
e 'coladere' capoverdine, 'lundum' di Sào Tomé  e
'ponchack' coreano. Come capita spesso l'arte anti-
cipa la società perchè, da anni, è già multiculturale.


Così oggi, nel momento  di massima  crisi  del pop, la
world music è una risorsa tanto indispensabile quanto
inevitabile. Lo storico duetto Neneh Cherry & Youssou
N'Dour  - che cantarono 'Seven Seconds' (1994) come
se fossero cresciuti insieme  e non una a Stoccolma e
l'altro a Dakar - ha spalancato  le porte  a una nuova
fusion che,  dalle siderali esplorazioni  dell'islandese
Bjòrk all'ammiccante melisma della colombiana Sha-
kira  (che ha un solido pedigree mediorientale), dal-
l'appassionata  collaborazione di Eddie Vedder  dei
Pearl Jam col principe del qawwali pakistano Nusrat
FatehAli Khan (nella colonna sonora di 'Dead man
walking')  alle travolgenti fanfare zigane  di Goran
Bregovic, è diventata talmente familiare da rendere
plausibile e per niente dissonante persino un duetto
fra Celentano e Cesària Evora, la diva scalza di Capo
Verde. La world music è ormai la colonna sonora del
comune sentire.

Ma la storia ha un inizio. Nel 1982 a Shepton Mallett,
in Inghilterra, esordisce il Festival Womad (World of 
music, arts and dance), che Peter Gabriel finanzia con
i proventi della reunion dei Genesis. E' il primo passo
per la realizzazione  dei Real World Studios  a Bath,
nel Wiltshire, un sogno che Gabriel cova da anni  e 
realizza nel 1989: una sorta di laboratorio  musicale
multietnico  in un angolo incantato della campagna
inglese. La prima compilation pubblicata, 'Passion -
Sources', è il manifesto della Real World, con musiche 
dal Senegal e dall'Egitto, dal Marocco e dall'Iran, dal-
l'Armenia e dalla Guinea, dall'Etiopia e dallo Zaire;
in soli due anni oltre 75 artisti di 20 paesi del mondo 
transitano negli studi di Bath.

"Come artista mi sono sempre sentito cittadino del
mondo", dice Gabriel. "Avevo una casa in Senegal
e mentre scrivevo la colonna sonora per  'L'ultima
tentazione di Cristo'  di Scorsese, scoprii il duduk,
un  meraviglioso  strumento armeno  che  Djavan
Gasparyan suonava in maniera inimitabile. Il Wo-
mad Festival  è stato  il mezzo che mi ha messo a
contatto con decine di incredibili talenti che nes-
suno avrebbe mai scritturato in Occidente".  
Il 'Telegraph' l'ha battezzato  "l'angelo custode
della world music";  in effetti  senza di lui non
avremmo conosciuto le esotiche meraviglie del-
l'Orchestra Baobab  nè il sontuoso melisma di
Youssou N'Dour, tantomeno i tamburi del Bu-
rundi o le litanie dei monaci tibetani.

Continua...to be continued...

sabato 1 settembre 2012

Musica - La vita di Amy Winehouse / Seconda parte

Un segreto industriale    visione post - 15
molto ben protetto
Dopo essere stata trattata per quasi due anni come un
segreto industriale da tenere nascosto a tutti, per Amy
Winehouse è venuto ora il momento del  'o la va o la
spacca'. Simon Fuller e i Lewinson Brothers sono molto
ammanicati con le principali etichette discografiche e, a
loro parere, la loro protetta è più che pronta al gran salto.
Anzi, di più:  "Il signor Fuller mi disse che Amy era così
brava  che molto presto  gliel'avrebbero  strappata  dalle
mani", racconta Alex Winehouse, il fratello più grande di
Amy, che in quel periodo aveva intrapreso la sua carriera
di drammaturgo e di regista teatrale ed era molto preoccu-
pato per la sorella, "non mi sembrava che stesse azzardan-
do una previsione. Era così sicuro da farmi pensare che a-
vesse già più di un asso nella manica".
Difficile sapere se fosse davvero così o se quello del-
l'agente fosse solo un giudizio lusinghiero dettato da
anni  ed  anni di esperienza.   Fatto sta, che per Amy
arrivò presto la svolta determinante per la sua carrie-
ra.   -   A raccontarla, un anno dopo, fu  quello stesso
Darcus Breese, suo futuro personal manager per con-
to della Island/Universal, l'etichetta major che la mise 
sotto contratto: "Spesso parlavo al telefono con i miei
amici della Lewinson", spiega,  "e un giorno mi disse-
ro di passare da loro che avevano  qualcosa da farmi  
sentire. Stavano lavorando su un pò di artisti e deside-
ravano che io dessi un'ascoltata ai loro pezzi.   Andai
da loro e mi misi le cuffie.  Subito mi fecero ascoltare
un paio di pezzi pop e un gruppo rock. Niente di ecce-
zionale. Era strano, perchè quelli erano manager seri,
che difficilmente mi facevano andare da loro se non
pensavano di avere un asso nella manica.  E di assi
tra quelli che avevo ascoltato ce n'erano ben pochi.
Stavo  per andarmene  quando, come per caso,  mi
chisesero di ascoltare ancora un paio di pezzi di una
cantante jazz-soul che avevano sotto contratto. Era
incredibile.  Quando gli chiesi chi era, loro fecero  i
vaghi. Non riuscii a farmi dare il nome neppure pre-
gandoli in ginocchio.   Dissero che era una ragazza
molto  giovane  di cui  stavano  registrando  alcuni
pezzi. E che a tempo debito mi avrebbero detto tutto
e organizzato il provino". - Nella Londra dell'under-
ground  la prudenza  non era mai troppa, Breese lo
sapeva bene. Se si fosse sparsa la voce in giro che
c'era  una cantante così, con tutto quel talento,  lei
sarebbe stata sommersa di richieste, proposte, illu-
sioni. Alcune serie, alcune no.  Avrebbe avuto una
fila di cialtroni alla sua porta pronti a offrirle di tut-
to un pò pur di convincerla a cambiare manager  e
a mettersi con loro. E i Lewinson Brothers non era-
no tipi da farsi soffiare  dalle mani  la gallina dalle
uova d'oro.

Ma  neppure  Breese  era  un tipo  alle  prime
 armi: "Feci un pò di telefonate in giro", spiega,
"e presto venni a sapere un nome, Amy Wine-
house. Era davvero  lei  la padrona della voce 
che avevo ascoltato?". Una volta avuta l'infor-
mazione ci mise due settimane per convincere
Simon Fuller a far firmare la sua protetta con 
la Universal, la casa discografica che lui rap-
presentava. Si trattava solo di un pre-contrat-
to: Amy avrebbe inciso alcuni pezzi, poi lui ne
avrebbe parlato ai piani alti e, in caso di rispo-
sta positiva, le avrebbe  fatto  incidere  il suo
primo cd. In realtà, i Lewinson Brothers ave-
vano  ricevuto  anche una proposta dalla eti-
chetta concorrente EMI per cui stavano già
mettendo a punto un 'demo tape'.
Ma la proposta di Breese era decisamente
più accattivante, anche perchè avrebbe per-
messo a Amy di crescere ulteriormente.  E
soprattutto  perchè garantiva all'artista  di
mantenere il suo stile musicale senza i con-
dizionamenti da classifica.  -   Un ulteriore
punto a suo favore fu il nome del produttore
a cui aveva deciso di abbinare la nuova entra-
ta in casa Universal: Salaam Remi aveva già
lavorato  con  Toni Braxton, Nelly Furtado,
The Fugees, Nas e Fergie.  Secondo Fuller
era il tipo giusto per lavorare con Amy anche
perchè era uno che sapeva ottenere il meglio
dagli artisti che gli venivano sottoposti.  Nel
giro di un mese  la  ragazza  entra  in studio,
con una band tutta sua, in rampa di lancio per
il mondo delle stelle a sette note.

Francamente... Frank
Amy è francamente entusiasta. Scrive a getto
continuo nuovi pezzi, canta, attangia.   Non si
perde un passaggio.    Con Remi lega subito,
anche se lui  la costringe  a restare sobria  e
ben presente a se stessa. Sono entrami am-
biziosi, decisi a usare al meglio quell'occasio-
ne unica. Il produttore è convinto di avre tra
le mani una voce straordinaria e sa come pla-
smarla per farla rendere al massimo. Presto 
i primi pezzi sono pronti  e  Breese decide di 
presentare Amy al suo boss, Nick Gatfield,
che è quello che deve decidere se stanziare 
o no i soldi del suo album d'esordio. Quando
entra nell'ufficio del suo superiore, il perso-
nal manager della giovane cantante non ha
alcun dubbio sulla riuscita della sua missione.

E ha ragione, perchè anche Gatfield capisce subito di 
avere tra le mani un'autentica bomba pronta ad esplo-
dere e dà subito il suo assenso al progetto di un primo
disco: "Non ho pensato neppure per un attimo che po-
tesse dirmi di no", spiega  ora  Darcus Breese,  "con
Amy si era creata quella miscela esplosiva che chi fa
musica ben conosce. Quella che ti fa muovere a ritmo,
che lega  l'anima dell'artista  a quella  di chi  lavora 
con lui. Gli ingredienti per il successo c'erano tutti.
C'era una sorta di eccitazione nell'aria. Sapevo che 
Amy da un lato era un rischio: era una cantante ati-
pica, legata a generi come il soul  e  il jazz che non
hanno un grandissimo pubblico, soprattutto in In-
ghilterra.  Ma lei era perfetta: aveva un gran look,
una grande presenza scenica, grandi canzoni e una
voce incredibile. Cosa poteva servirle di più per sal-
pare le ancore? Forse un pò di fortuna. Ma io sono
sempre stato un tipo fortunato".
Da parte sua Amy non andrebbe neppure a dormire
tanto è felice ed entusiasta. E anche Remi sembra
convinto che quella adolescente tutta pelle ossa e
tatuaggi, abbia le carte in regola per sfondare.
Per prima cosa passa  in rassegna  i pezzi scritti
dalla ragazza, ma li scarta tutti tenendo solo la
bella 'I Heard Love is Blind'  che sembra avere
una marcia in più rispetto alle altre.    Insieme
decidono di riscrivere il resto dell'album da ca-
po: è un lavoro lungo e non semplice, ma men-
tre nascono piccoli capolavori come Stronger
Than Me, Take the Box, In My Bed, You Sent
Me Flying, Pumps e Help Yourself, l'entusia-
smo fa sì che non si senta la fatica. 

Continua... to be continued...

giovedì 23 agosto 2012

Fotografia - Robert Capa in mostra a Verona

23 agosto 2012 - giovedì                                  Visione di questo post  -  364

ROBERT CAPA
Centro Internazionale Scavi Scaligeri, Verona
25 marzo - 16 settembre 2012

english version

Il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri ospita, dal 25 marzo al 16 settembre 2012, la
mostra dedicata a 

                 October 22, 1913  -  1954,  May 25


Dopo la retrospettiva dedicata a Henri Cartier-Bresson
e la mostra Magnum sul Set, con i ritratti dei protagonisti del mondo del cinema, il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri conclude la rassegna di esposizioni dedicate all'agenzia Magnum Photos, con una mostra che rende omaggio ad uno dei più importanti fotografi del xx secolo: Robert Capa.

Soldato bambino
Honkou, Cina, 1938
              Henri Matisse
Cimiez, Nizza, Francia
agosto 1949
Morte di un miliziano lealista
Fronte di Cordova, Spagna
inizio  settembre 1936
                   Sbarco delle truppe americane
                     a Omaha Beach, Normandia,
                         Francia, 6 giugno 1944

                  Contadino indica ka direzione
                  presa dai tedeschi nei pressi
                          di Traino, Sicilia
                    Italia,  4  -  5  agosto 1943
Il percorso espositivo, costituito da 110 fotografie in bianco e nero, si apre con il primo reportage realizzato nel 1932 a Copenhagen durante una conferenza di Leon Trotsky, durante la quale il fuoriuscito russo mise a nudo, per la prima volta, la violenza dello stalinismo.

Si ripercorrono poi, attraverso le dense immagini di Capa, gli anni del Fronte Popolare a Parigi, la guerra di Spagna, l’invasione giapponese della Cina, per arrivare allo scoppio della Seconda guerra mondiale, che il fotografo seguì sui diversi fronti di battaglia fino allo sbarco in Normandia e alla liberazione di Parigi.

Seguono i suoi reportage in Unione Sovietica nel 1947 e in Israele nel 1948, dove documenta la nascita dello stato ebraico, e quello in Indocina, dove perderà la vita saltando su una mina antiuomo il 25 maggio 1954.

FRANCE. 1935. Tour de France.
Robert Capa © International Center of Photography

SPAIN/USA. 1937-1944. Ernest Hemingway.
Robert Capa © International Center of Photography
 Tunisia, 1943 - The American Fighter ace. Pilot LARDNER
                        in the cockpit

ROBERT  CAPA      nella mostra di Verona

John Steinbeck una volta scrisse che il suo amico Robert Capa sapeva che "non si può fotografare la guerra perchè questa è soprattutto un'emozione". Tuttavia, continuava Steinbeck
"riuscì a fotografare questa emozione perchè scattava le sue foto stando accanto ad essa: ha potuto mostrare l'orrore di un intero popolo nel volto di un bambino".
La mostra , costituita da 110 fotografie in bianco e nero, allestita presso il Centro Internazionale di Fotografia dal 24 marzo al 16 settembre 2012, è stata realizzata da Magnum Photos, la famosa
agenzia che lo stesso Capa aveva fondato nel 1947 con Henri Cartier-Bresson e David Seymour,
per rendere omaggio ad uno dei più importanti e influenti fotografi del XX secolo.
Si inizia con il primo reportage realizzato nel 1932 (Capa aveva 19 anni) a Copenhagen durante
una conferenza di Leon Trotsky, durante la quale il fuoriuscito russo mise a nudo, per la prima
volta, la violenza dello stalinismo.
Si ripercorrono poi, attraverso le dense immagini di Capa, gli anni del Fronte Popolare a
Parigi, la guerra di Spagna, l'invasione giapponese della Cina per arrivare allo scoppio
della Seconda guerra mondiale, che il fotografo seguì sui diversi fronti di battaglia fino
allo sbarco in Normandia e alla liberazione di Parigi.
Seguono i suoi reportage in Unione Sovietica nel 1947 e in Israele (1948) dove documenta
la nascita dello stato ebraico, e quello in Indocina dove perderà la vita saltando su una
mina antiuomo il 25 maggio 1954.
Il percorso della mostra si conclude con una serie di ritratto degli amici di Capa, famosi
artisti come Ernest Hemingway, William Faulkner, Henry Matisse e Pablo Picasso.

Continua...to be continued...

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mercoledì 15 agosto 2012

Cultura - Lo scrittore americano Jack Kerouac

Jack Kerouac è uno degli scrittori americani da me
preferiti.  E non solo  perchè   è il padre della Beat
Generation  (poi è venuto  Allen Ginsberg, il poeta
della B. G.), ma poichè è stata la scoperta che allo-
ra, nel '68, tanti di noi giovani hanno fatto per an-
dare a coprire una mancanza di paternità, ormai
persa in conseguenza delle contestazioni contro
il sistema e i padri che lo rappresentavano. E se
negli States  la strada alla contestazione era stata
aperta anche  da Kerouac con il suo libro.bibbia
"On the road" ('Sulla strada') nei primi anni sessan-
ta, in Italia arrivò tutto più tardi ma con non minore
impatto sociale-culturale.
Ma prima del suo capolavoro ("On the road") lo
scrittore americano  fece  le prove generali  con
"Il mare è mio fratello", il suo primo romanzo che
si credeva perduto
 













Jack Kerouac
Prima della Strada: "Il mare
è mio fratello"

- Nelle vene dell'America
Tracciato con i piedi del primo essere umano che
dall'America  arrivò  a calpestare  il suolo  di un
continente ignoto, il sentiero della mobilità è da
almeno dodicimila anni la via maestra, la verità,
la vita del popolo che noi chiamiamo americano.
Non inventò davvero nulla Jack Kerouac con la
sua "beat generation" di nomadi perennemente
'on the road', perchè l'essere in continuo cammi-
no, e possibilmente senza una meta, è la condizione
umana naturale, la "libido", direbbe Sigmund Freud
che la accomunava al moto delle pulsioni,  che muove
ogni americano.
Quello che i giovani americani sopravvissuti alla 
guerra intercontinentale ritrovarono, nella lettera-
tura come nel cinema  degli ultimi anni  '40 e '50,
fu il filo della cultura   che era tessuta  nei fili dei
propri cromosomi. O se non dei loro, certamente
di coloro  che li avevano preceduti  imboccando,
a piedi  attraverso  lo  stretto  di Bering, o sulle
rotte del mare, la strada  che li aveva spinti via 
dalle proprie radici.
Anche l'espressione "nativi" riservata alle nazioni
indiane che subirono l'invasione europea è più po-
liticamente che etnograficamente corretta.
Nonostante gli stupendi miti di creature sbocciate
dalla madre terra o partorite dalle conchiglie, anche
i "nativi" erano stati migranti.
- Il viaggio
Il viaggio, nella mitologia  che  il dopoguerra partorì
e che travolse generazioni di giovani non americani,
sembrò essere, fin dalle prime opere di Kerouac, come
questo inedito, "Il mare è mio fratello" (poi di Ginsberg,
un segnale di ribellione  allo status quo  imposto dalla
propria nascita dal proprio genere, dalla morale familia-
re, dalla società pasciuta e ipocrita nata dal trionfo mili-
tare del 1945.



















martedì 14 agosto 2012

Cultura - Lo scrittore americano J. D. Salinger

Il SALINGER inedito,
sorprendente, sconosciuto


Il giovane Holden? Era una spia Usa e sposò
una nazista
Dalla Germania arrivano le prove che J. D.
Salinger , a guerra finita, lavorò per i servi-
zi americani. E interrogò, come seguace del
Fùhrer, quella che sarebbe diventata la sua
prima moglie. Lo si è saputo quasi per caso,
grazie a una signora che gli fece da cuoca,

(da 'il Venerdì di Repubblica' / esteri - Pagine
perdute . 23 ottobre 2009 - Lisa Grunenberg)

"Non avevo idea che quell'americano tanto carino
scrivesse libri", è stato  il  commento  di  Hedwig
Stùbing, signora ottantacinquenne di Gunzenha-
usen, in Baviera, quando le è stato spiegato  chi
fosse quel giovane presso cui aveva lavorato dopo
la fine della Seconda guerra mondiale. Non uno
scrittore  qualsiasi, peraltro, ma   Jerome David
"J. D." Salinger, mito della letteratura contem-
poranea, autore del "Giovane Holden", e titolo
originale : "The Catcher in the rye".















Come  molti sanno, nel 1953  Salinger  si  ritirò
nella sua casa di campagna a Cornish, nel New
Hampshire, travolto dal successo del suo celebre
romanzo, terminato nel '51. Da allora, le notizie
trapelate su Salinger sono rarissime.   E ancora 
oggi, più che novantenne (nel 2009 - Salinger è
morto il 27 gennaio 2010 ndr.), rifiuta qualsiasi
contatto con il mondo esterno. E la sua giovinezza,
in particolare  la sua partecipazione  alla Seconda
guerra mondiale nel 12°reggimento di fanteria del-
l'esercito americano, continua a nascondere aspet-
ti mai chiariti.
Un sorprendente contributo per fare luce su questo
periodo arriva da Gunzenhausen, un piccolo centro
non lontano da Norimberga, e dalla signora Stùbing.
Già si sapeva che il grande romanziere aveva trascorso
in Baviera alcuni mesi. Salinger usciva da esperienze
durissime.    Aveva preso parte alla sanguinosa batta-
glia di Thankirchen (il villaggio che i nazisti, nono-
stante la disfatta  fosse prossima, si rifiutarono di ce-
dere e che alla fine fu raso al suolo dagli Alleati), ed
era stato  tra i primi soldati  a entrare   nel campo di
concentramento di Dachau, liberato dagli americani
il 29 aprile del 1945. "Non puoi più toglierti la puzza
di carne bruciata dal naso, non importa quanto a lun-
go tu viva" confessò anni dopo alla figlia Margaret.
Il carico emotivo divenne insopportabile, tanto che
Salinger fu ricoverato nel reparto psichiatrico del-
l'ospedale militare di Norimberga per 'battle fatigue'
(stress per traumi da combattimento), come testimo-
nia  una lettera  scritta da lì  nel  luglio del 1945 a
Ernest Hemingway, conosciuto l'anno prima a Pa-
rigi.    Dimesso dall'ospedale, Salinger si congeda
anche dall'esercito.   Non torna però subito negli
Stati Uniti: decide di rimanere in Germania e firma,
questa volta  come civile, un nuovo contratto  di sei
mesi con l'esercito.  -  Sulle ragioni che lo avevano
trattenuto e sul tipo di attività da lui svolta  erano
finora state possibili solo delle congetture.

Il Military History Office di Heidelberg  non aveva
potuto fornire dettagli sulla sua presenza, o chiari-
re che ruolo avesse svolto. Poi, lo scorso settembre
(2009 ndr.), la signora Stùbing ha letto un articolo
del 'Nùrnberger Nachrichten', un quotidiano regio-
nale che     rievocava  il soggiorno dello scrittore  a
Gunzenhausen.  E si è ricordata di quell'americano
"così carino", per il quale aveva lavorato, come cuo-
ca e cameriera, dal gennaio al marzo del 1946.
Sopratutto,  ha tirato fuori dalle sue vecchie carte
una lettera di referenze, sctitta  su  un foglietto di
carta sottile e quasi trasparente, firmata da Salinger.
La allora  "signorina Kugler"  viene definita nella
lettera una persona "diligente e capace, la cui one-
stà  e lealtà sono indiscutibili".   -  Il dettaglio più
interessante è però la qualifica con cui Salinger si
firma: Special Investigator, Cic, Caf 10.  La sigla
Caf 10 indica il grado di capitano. Cic sta invece
per Countern Intelligence Corps, l'agenzia di spio-
naggio dell'esercito americano.
La reference letter, conservata per più di 60 anni
dalla signora Stùbing, è la prova che lo scrittore
nei mesi successivi alla fine della guerra era an-
cora impegnato in attività di intelligence contro-
spionaggio per l'esercito americano. Già nel 1944
Salinger era stato reclutato nel Cic per la sua per-
fetta conoscenza del tedesco, di cui si ricorda bene
anche la signora Stùbing.
Nel dopoguerra l'agenzia di spionaggio dell'esercito
americano  si era dedicata  soprattutto a un'attività
di "denazificazione" della Germania occupata.  In
questa luce si comprende quindi meglio la presenza
del giovane capitano a Gunzenhausen, considerato
un covo di nazisti.
Dall'archivio della cittadina è inoltre spuntata una
foto di 3 soldati americani. Uno di loro è in borghe-
se e, secondo l'archivista Werner MùhlhàuBer, quel
giovane sorridente potrebbe essere proprio Salinger.
 Lì lo scrittore  si era stabilito  nella lussuosa Villa
Schmidt nel novembre del 1945 con la prima moglie
Sylvia Welter, un'oculista tedesca sposata in ottobre.
Anche le circostanze in cui i due si erano conosciuti
sembrerebbero potersi ricondurre all'atività di con-
trospionaggio svolta da Salinger. In 'Dream Catcher',
la sua biografia del padre non autorizzata, Margaret
Salinger sostiene che la prima moglie, morta l'anno
scorso (nel 2008 - ndr.), fosse una fervente nazista e
che i due  si fossero conosciuti  addirittura durante
un interrogatorio. Da una casa di riposo di Erlangen,
però,  Hildegard Mayer, amica  e compagna di scuola
di Sylvia Welter smentisce. "Tutte sciocchezze. Sylvia
era una bellissima ragazza, che aveva cervello e senso
dell'umorismo. Non aveva niente a che fare con i na-
zisti".
 La coppia ripartì per New York nell'aprile del 1946,
ma  la giovane moglie tedesca  non fu mai accettata
dalla famiglia ebrea dello scrittore.   Dopo soli otto
mesi , tornò in Europa. Lasciando Salinger solo con
i suoi fantasmi e la scrittura del suo capolavoro.
IL SALINGER 
                                                                 SORPRENDENTE
Al  più grande eremita  della letteratura mondiale
piaceva mangiare gli hamburger nei fast-food, bere
birra nei pub, fare gite turistiche in pullman alle ca-
scate  del Niagara e al Grand Canyon, andare allo
zoo, guardare gli sceneggiati in tv, ascoltare Pava-
rotti e coltivare l'orto.
J.D. Salinger era insomma una persona normale,
non il recluso che i media e il suo stesso compor-
tamento hanno fatto credere.   E' indubbio che il
romanziere  americano, dopo avere conquistato
fama  internazionale  nel 1951  con  "Il giovane
Holden", pubblicò poco altro, evitò stampa e no-
torietà come la peste e visse sempre in una citta-
dina del New Hampshire, fino alla morte nel 2010.
Ma decine di lettere inedite  venute alla luce di
recente, scritte da Salinger a un vecchio amico,
rivelano che l'immagine di un solitario strambo
che si nasconde da tutto e tutti non corrisponde
minimamente alla realtà.

Continua...to be continued...