martedì 31 agosto 2021

CULTURA - I Grandi miti / scrittori - Professione Hemingway

 31 agosto '21 / martedì                visione post - 17

(da 'Il venerdì' di Repubblica - 5 luglio 2019 / di Marco Cicala)


MR. PAPA DOLOR Y GLORIA

Qualche anno fa, in un albergo di Siviglia, rilessi all'anziano
matador de toros Jaime Ostos quanto Ernest Hemingway 
aveva scritto su di lui vedendolo in azione nell'arena a metà
del secolo precedente: "Jaime Ostos mostrò lo stesso co-
raggio dei cinghiali delle Sierras della sua regione. Come il
cinghiale, dava prova di un'audacia quasi folle e rischiava
sempre più grosso fino a sembrare uno che vuole suicidar-
si".  Riascoltando quelle parole, Ostos minimizzava lusin-
gato, col suo ghigno da cinghiale.
Ostos commentò: "Hemingway era una cara persona, un
sentimentale. Beveva molto. Faceva colazione con una 
bottiglia di vino e due croissant.  Come scrittore non si
sentiva capito. Diceva: forse non riesco più a esprimer-
mi, ma io continuo a scrivere le cose  come le sento  e
non posso che andare avanti cosi'".
Incompreso Hemingway? L'uomo del Nobel e del Pulitzer?
Dei bestseller globali? Si', il vecchio torero ricordava be-
ne. Perchè "Ernie" appartiene  ormai alla riserva protetta
dei classici, ma per tutta la vita venne incornato dalla cri-
tica. nei romanzi e ancora più nei racconti, aveva scarce-
rato la prosa inglese dall'eloquenza, dall'enfasi, dal fron-
zolo vittoriano, però - a giudizio dei suoi detrattori - si
era lasciato imprigionare  troppo presto in uno stile da 
duro che rasentava l'autoparodia involontaria. Mr. Papa
incassava quegli attacchi malissimo  e già  alla fine de-
gli anni Trenta denunciava i sintomi paranoidi della sin-
drome da accerchiamento: "Mi odiano, vogliono farmi
fuori" si legge in una lettera.
Lo scontro più celebre, se non altro perchè fisico, con
un critico ebbe luogo a New York nell'agosto '37. Pri-
ma di ripartire come reporter per la guerra di Spagna, 
Hemingway incrocia neglu uffici dell'editore Scribner
un tizio col quale ha un conto in sospeso.  Si chiama
Max Eastman, è il giornalista che dalle colonne della 
rivista progressista New Republic ha malmenato il suo
"trattato" sulla tauromachia Morte nel pomeriggio sfot-
tendone  soprattutto  il machismo: la boria, ha scritto, 
"di chi si appiccica peli finti sul petto".    L'ego virile
sanguinante, "Hem" se l'è legato al dito. Nei locali del-
la Scribner lo vedono afferrare un libro e scagliarlo in
faccia al recensore. I due si avvinghiano, rotsul pavi-
mento rovesciando scrivanie. Seppur con gli occhiali
rotti, Ernest - che è più grosso e pratica il pugilato -
sta per avere la meglio, ma si trattiene. Li separano.
I duellanti si ricompongono bofonchiando parole di
scusa. Sotto lo sguardo impietrito del grande editor
Max perkins, la bagarre si chiude lì. Ma il livore an-
tiHemingway avrà vita lunga, cristallizzandosi in un
pregiudizio che, oggi, nell'impero del politicamente
corretto, rischia di trovare nuova linfa.
Macho col sorrisetto sghembo alla Clark Gable, ro-
busto amatore e bevitore, fanatico di corride, pesca-
tore nei Caraibi, cacciatore in Africa...  A 120 anni
dalla nascita - 21 luglio 1899 - è di quell'Hemingway
poseur che tornano a parlarci molte tra le foto, alcu-
ne inedite, raccolte nel sontuoso volume mondado-
riano Hemingway. L'uomo e il mito.  Ecco, appunto:
il mito. "Io non lo sopporto. E' semlicistico, limitan-
te, stupido. Il vero Hemingway era una personalità
complessa, ricca di sfumature. Era affettuoso, crude-
le, una brava persona e un bastardo, un tipo insicuro,
spaventato dalla vecchiaia e dalla morte. Certo, la
responsabilità di aver creato il mito fu in parte an-
che sua.  Commise l'errore  nel quale  incappano
spesso i "famosi": quello di pensare di poter con-
trollare il proprio mito. Ma non funziona così: il
mito assume una vita propria". Ed è lui a control-
lare te.  Parola di Michael Katakis. Oltre che cu-
ratore dell'album ora tradotto in italiano, è il si-
gnore a cui gli eredi hanno affidato l'onere gra-
voso e invidiabile di gestire i diritti mondiali
di Hemingway. Buttali via.   Katakis vigila e
 tratta non solo sui libri di Mr- Papa ma pure
sulla massa di cimeli oggi custoditi alla John
Fitzgerald Kennedy Library di Boston. Lette-
re, telegrammi (tra i quali uno in cui l'ancora
senatore JFK chiede a Ernest di chiarirgli il
concetto di "coraggio"), plichi "top secret"
dei servizi militari di intelligence sotto Ei-
senhower e poi assegni, sconttini di librerie,
biglietti di aerei, treni, navi... Più una marea
di foto: undicimila.  Hemingway è stato lo
scrittore più fotografato del Novecento. Ma
che rapporto aveva con la propria immagine?
"La curava molto" risponde Katakis. "Oltretut-
to aveva la fortuna di essere totogenico. Ha
presente le famose foto realizzate a Sun Valley,
Idaho, nelle quali lo vediamo con i figli o con 
Gary Cooper? Sono sbalorditive, alcune ven-
nero scattate da Robert Capa. Ma Patrick, il 
secondogenito di H., mi ha confessato che
erano costruite  a tavolino per promuovere
quella località.  Succedeva spesso che al pa-
dre offrissero alloggio gratis e altri vantaggi
per usare la sua faccia a scopi pubblicitari".
Questa di Hemingway cripto-testimonial ci 
mancava.
Il narcisismo "mediatico" di 
Ernest era cominciato molto presto. Prendi
quello scatto celeberrimo che a Parigi, da 
giovane, lo ritrae insieme a Sylvia Beach 
davanti alla libreria Shakespeare and Com-
pany: Hemingway sogghigna spavaldo 
con la testa fasciata da una benda delle
dimensioni di un turbante.    Che gli è
successo? Niente di speciale. Una notte
che era sbronzo si è alzato per andare al
gabinetto, ma al buio ha scambiato la ca-
tenella dello sciaquone con quella della 
e tirando di strappo s'è fatto crollare la
plafoneria sulla zucca. E il giorno dopo
eccolo lì che sfoggia la cicatrice nem- 
meno fosse una ferita di guerra.
Civetterie di un esibizionista feroce, ma
anche di uno che, fondendo esperienze 
vissute e scrittura, aveva deciso di sca-
raventare in quell'impresa tutto se stesso,
a cominciare dal proprio corpo. E, dalle
220 schegge di mortaio austriaco che a
diciott'anni s'era beccato nelle gambe
mentre faceva l'ambulanziere sul fronte 
italiano ai terribili incidenti aerei durante 
il viaggio africano del '54 dal quale rientrò
mezzo cieco e sordo, con cranio ustionato, 
fegato e rene stritolati, fratture multiple al-
la spina dorsale, quello di Hemingway fu
- in vita - il corpo più martoriato nella storia
della letteratura.

Continua...
to be continued...

venerdì 16 aprile 2021

Scrittori - William Faulkner: il razzista innocente

 venerdì, 16 aprile 2021  -  visione post - 16

(da LA LETTURA/ Corriere della Sera - 6 dic. 2020 -
di Costanza Rizzacasa D'Orsogna)

Il saggista Michael Gorra difende il valore dello
scrittore che nel 1949 vinse il Nobel, oggi accu-
sato di avere dato voce al Sud schiavista: "I suoi 
limiti sono una versione dei nostri". E infatti anche 
l'afroamericana Toni Morrison lo ammirava.

Toni Morrison , che gli aveva dedicato la tesi del Master in 
letteratura americana, ne ammirava l'implacabilità nell'inda-
gare il passato. "Leggo William Faulkner per conoscere gli
Stati Uniti - in un modo che i libri di storia non permettono
di fare". Nel 2016, commentando la vittoria di Trump, os-
servò che Faulkner aveva capito meglio di chiunque altro 
come la perdita dei propri privilegi  apparisse  ai bianchi
"così spaventosa da precipitarsi verso una piattaforma po-
litica che promuove la violenza sugli indifesi". Oggi Faul-
kner, come altri (Ma quant'era razzista Flannery O'Connor?,
titolava il "New Yorker" pochi mesi fa), lo si vorrebbe can-
cellare.  Uno dei più grandi scrittori americani, Nobel per
la letteratura nel '49, è diventato scomodo  e va perciò ri-
mosso dalle letture consigliate a scuola e all'università.
L'accusa? Non aver rinnegato il razzismo di sistema. Ma
è giusto Faulkner, nato nel Mississippi del 1897 e vissu-
to durante la segregazione, con la sensibilità odierna? E'
giusto condannarlo se l'America stessa, cent'anni dopo, 
con quel razzismo stenta ancora a fared i conti?   UN
saggio di Michael Gorra, studioso di Faulkner e docen-
te di letteratura americana allo Smith College (The Sad-
dest Words: William Faulkner's Civil War), prende le di-
fese dell'autore, dimostrando che se Faulkner non potè
sfuggire  alle aberrazioni  del suo tempo, ne fu sempre 
tormentato, e nei suoi libri riuscì a emanciparsene.

Parte biografia letteraria, parte rievocazione storica, 
The Saddest Words rilegge Faulkner attraverso la
Guerra Civile (1861-65), "la guerra infinita", che
Faulkner raccontò in 19 romanzi e oltre cento rac-
conti. Un lavoro che, nelle parole di Morrison, è il
risultato  del rifiuto  dell'autore   di distogliere  lo
sguardo dal terribile lascito della propria terra. At-
traverso la continua rivisitazione di storie e perso.
naggi sella fittizia contea di Yoknapatawpha, pre-
quel, sequel e spinoff, Faulkner racconta il Sud,
dalle piantagioni di cotone  al  mito  della  Lost
Cause (la causa persa della Guerra Civile), e le
sue scioccanti verità. Nel farlo, racconta l'Ame-
rica. -  Vero, Faulkner può apparire offensivo,
Il linguaggio razzista permea i suoi romanzi, Ma
non perchè Faulkner fosse razzista (e lo era, co-
me lo sarebbestato allora, qualunque pronipote
di un colonnello schiavista dei Confederati),
quanto perchè, osserva Gorra, voleva riportare
fedelmente  il linguaggio  abominevole  della 
cultura bianca.  Altra obiezione spesso mossa
a Faulkner è come possano i suoi libri essere
considerati  grandi romanzi  sul razzismo  se 
non hanno protagonisti neri. Lo sono perchè, come
scriverà James Baldwin,  "la condizione del negro
in America è una forma di follia che copisce i bian-
chi". E nessuno ha raccontato quella follia meglio
di Faulkner. Come avrebbe potuto, del resto, Faul-
kner, sapere che cosa volesse dire essere nero? La
sua grandezza sta nel raccontare  le vergogne  dei 
bianchi. Vero, mancano le frustate, la separazione 
delle famiglie che la vendita di schiavi comportava;
i neri di Faulkner, pur molto diversi dalle caricatu-
re di tanta letteratura bianca del Sud dell'epoca, so-
no bidimensionali. Al contempo i suoi racconti de-
gli schiavi che fuggono vrso la libertà non hanno
eguali e anticipano la storiografia moderna.
Faulkner non è un apologeta del Vecchio Sud.
Forse, il racconto più potente che Faulkner fa
della Guerra Civile si trova in Assalonne, Assa-
lonne (1936). Dove l'incesto è meno tabù, per
una famiglia dell'alta borghesia del Sud, di quel-
la goccia di sangue nero  che infangherebbe  il
proprio lignaggio. "Non è l'incesto che trovi in-
tollerabile - dice Charles Bon a Henry Sutpen
prima che questi lo uccida - è l'incrocio di razze".
  Non che le idee di Faulkner non fossero proble-
matiche. Certe sue dichiarazioni  in  termini  di 
giustizia e progresso spociale erano sconcertanti.
In un'intervista del 1956  affermò  che se il Sud
fosse stato costretto a integrarsi, sarebbe sceso
in strada col fucile e non avrebbe esitato ad am-
mazzare dei neri (parole pronunciate, pare, in
stato di ubriachezza, e poi smentite). E se da un
lato condannava i linciaggi, chiedeva che il mo-
vimento per i diritti civili procedesse senza l'ur-
genza auspicata da Martin Luther King, per per-
mettere la "salvezza morale" del Sud. Fu Baldwin
a rispondergli, osservando che quella salvezza sa-
rebbe stata possibile solo a costo di posticipare la
giustizia per i neri, cosa non più concepibile.
 Recensendo il saggio di Gorra per l'"Atlantic", 
Drew Gilpin Faust, presidente emerita dell'Uni-
versità di Harvard e autrice di un importante testo
sulla Guerra civile (This Republic of Suffering:
Death and the American Civil War), ricorda che
Assalonne, Assalonne! uscì lo stesso anno di Via
col Vento, con ben altre fortune. "Furono i chiari
di luna e le magnolie di Via col Vento ad attirare
il plauso del pubblico - nota - e non il ritratto bru-
ciante dell'eredità della schiavitù fatto da Faulkner.
Margaret Mitchell, non Faulkner, vinse il Pulitzer".

I Confederati come eroi, la schiavitù come istituzione
necessaria e benigna: era questa la visione del tempo.
ma è soprattutto per le sue mancanze, non a dispetto 
di esse, che dobbiamo coninuare a leggere Faulkner.
"L'idea di cancellare Faulkner - spiega Gorra a "la
Lettura" - si fonda sulla convinzione che nelle stesse
circostanze saremmo stati migliori. Ma i suoi liniti
sono una versione dei nostri, prodotto ed emblema 
di un passato che ha formato generazioni di ameri-
cani. Faulkner non avrebbe potuto capire la società
del tempo se non ne avesse fatto parte, e la sua ri-
pugnanza, per quel mondo e per sè stesso, è visce-
rale e fortissima".



Lucianone

sabato 19 settembre 2020

CULTURA / Letteratura tardoantica: Massimiano e i suoi distici

 19 settembre '20 - sabato               visione post - 20

(da 'ALIAS' / manifesto - 14 settembre '20 - di
Alessandro Fo)
                  
MASSIMIANO
Eros e vecchiaia; conflitto morale
per l'ultimo elegiaco: il tema del-
l'amore carnale in epoca cristiana

E' nobile iniziativa che una collana prestigiosa come quella
della fondazione Lorenzo Valla metta a disposizione di un
vasto pubblico, e con ampio supporto di apparati, un testo
"raro", e ricco di fascino, come il corpus di Massimiano.
Si tratta di un caso letterario per molti aspetti misterioso,
cosa che ha sollevato una ridda di divergenti interpreta-
zioni, e l'edizione a cura di Emanuele Riccardo D'Aman-
ti (Elegie, Mondadori, pp. CX-414) consente ora un'age-
vole esplorazione di questo singolare 'microcosmo'.
La tradizione manoscritta ci consegna sotto il nome di
Maximianus un corpus in distici elegiaci di quasi sette-
cento versi, che, composto - pare - in ambiente italiano
e intorno alla metà del VI secolo, sviluppandosi nel sol-
co della tradizione elegiaca romana tratta in chiave au-
tobiografica argomenti amorosi. Ma, vistosamente in-
novando, ne trasferisce  il  punto  di osservazione  in 
quella zona forzatamente liminare che è l'estrema vec-
chiaia. La persona loquens afferma  di vivere una sta-
gione di devastante decrepitezza, di cui piange a lungo
le afflizioni, non ultime quelle che precludono le gioie
dell'eros. E' stato ipotizzato che Maximianus sia da in-
tendersi come un 'nome parlante', volto a evocare ap-
punto un'età assai avanzata.  In assenza  di maggiori
punti d'appoggio, si continua ad assegnare  a questo
bizzarro elegiaco  il nome di "Massimiano"  con cui
l'ego compare fra i suoi versi (IV 26: "canta: Massi-
miano ama una cantante), e aritenerlo "nato attorno
al 490 in Etruria" in una famiglia di rango, e "mor-
to poco dopo la metà del VI secolo", abbastanza a 
ridosso della 'pubblicazione' delle poesie.
Con Aquilina come Piramo e Tisbe
Dalla sua condizione di vecchio ormai consunto e
sull'orlo della tomba, il poeta si volge  a ricordare
il proprio passato galante. Una prima lunga elegia,
rimpiangendo i giovanili splendori, presenta soprattutto
tutto una dettagliata rassegna  delle attuali deprivazioni
e sciagure. Vi si collega strettamente la seconda. in cui
il poeta lamenta che, a causa della sua decrepitezza, sia
venuto a cadere il pur lungo legame con Licoride. Ora,
Lycoris è il criptonico con cui aveva cantato la propria
donna  Cornelio Gallo, ritenuto il fondatore dell'elegia 
erotico-soggettiva a Roma.  Questo mi sembra già se-
gnalare come l'autore proponga il suo disegno attraver-
so il filtro di una spiccata letterarizzazione.

Lucianone


lunedì 24 agosto 2020

MUSICA / Jazz e oltre - Il trombettista Don Cherry e l'album postumo "Om Shanti Om"

 24 agosto '20 - lunedì              visione post - 21

DON CHERRY
Oltre il jazz, 
verso un radicale neofolclore
universalistico e multiculturale

"Om Shanti Om",
l'essenza meravigliosa di un'epoca.
L'album postumo ricavato da un incontro
con il musicista in una trasmissione Rai
del 1976

(da 'il manifesto' - 9 agosto '20 - Marcello Lorrai)
Da diversi anni è reperibile su Youtube Incontro con Don 
Cherry, un programma in bianco e nero a cura di Franco
Fayenz realizzato dalla Rai nel 1976: Cherry risponde ad
alcune domande, e cantando e suonando pocket trumpet,
flauto e donso ngoni (strumento a corde delle confrater-
nite dei cacciatori in Mali e Guinea) si esibisce col suo
gruppo di allora, un quartetto  con  la moglie  lappone
Moki Cherry al tanpura, il brasiliano Nana Vasconcelos
al berimbau, alle tabla e ad altre percussioni, e l'italiano
Gian Piero Pramaggiore alla chitarra acustica e al flauto.
Lo studio è allestito con i bellissimi arazzi di stoffa di 
Moki Cherry, che fanno da fondale al concerto: tra gli
altri si riconosce quello - con scritto "Om Mani Padme
Hum", uno dei più popolari mantra del buddismo tibe-
tano - che è stato riprodotto sulla copertina dell'album
di Cherry Brown Rice.   All'inizio della performance
Cherry, che indossa un abito pittoresco, indica su un
drappo alle sue spalle un altro mantra, "Om Shanti
Shanti Shanti Om": è l'invocazione ("shanti" in san-
scrito significa "pace") con cui comincia il brano che
apre lo speciale. Nell'ultimo pezzo compaiono anche
Neneh Cherry, all'epoca dodicenne, che suona dei so-
nagli e partecipa al coro, e Eagle-Eye Cherry, sette
anni, che canticchia e percuote uno degli strumenti
di Vasconcelos, e ad un certo punto Neneh, Moki e
Don lasciano i loro posti e coi loro abiti esotici si
mettono a ballare in primo piano.
Ora i tre quarti d'ora di musica di Incontro con Don
Cherry sono diventati un album, Om Shanti Om,
pubbicato  (in vinile e cd)  dall'etichetta italiana
Black Sweat Records, che ha ottenuto di accedere al
master originale della Rai.  Non è un pò paradossale
ricavare da un documento del genere un album?
A maggior ragione se si tiene conto della forte com-
ponente visiva dell'arte di Don Cherry di quel perio-
do: gli arazzi, che venivano installati  sui palchi  su
cui Cherry si esibiva; la musica eseguita per lo più
da seduti, accovacciati per terra, ad accentuare il 
senso di una pratica comunitaria, e di una dimen-
sione cerimoniale, più che di concerto; la stessa
intestazione "Organic Music Theatre" sotto il qua-
le il gruppo di Cherry in quella fase si presentava:
con moglie e figli piccoli sotto i riflettori pareva
una generosa declinazione - ricordiamo una fol-
gorante esibizione al festival del jazz di Alassio
del 1973, con Neneh e Eagle-Eye anche loro sul
palco - dell'antico anelito  delle avanguardie  al
superamento della separazione tra arte e vita.
Senza neanche dire  del magnetico candore di
Cherry in scena, della bellezza del suo viso, della
dolcezza ieratica del suo modo di fare.
No, non è affatto paradossale. Perchè se questi a-
spetti non erano gli ultimi fra i motivi della sugge-
stione dell'arte di Don Cherry di allora, e se la sua
proposta aveva una forte pregnanza nel suo insie-
me, Om Shanti Om ci porta a focalizzarci sull'a-
scolto, e a constatare che a prescindere dai deli-
ziosi teatrini, al netto di tutto il resto, la musica
di Don Cherry di quei tempi bastava e avanzava
di per sè, e mostrava anche tutto un suo rigore.
Don Cherry, Münster, 1987
 
Dagli ultimi anni Sessanta Cherry  era uscito da un ambito
ambito esclusivamente jazzistico  e  aveva sviluppato uno
straordinario nomadismo  estetico  e culturale, anche alla 
ricerca di un più sereno equilibrio esistenziale. Quella dei
gruppi  con cui Cherry  negli anni Settanta si indirizzò più
risolutamente in questa direzione è la parte della sua pro-
duzione  che - se non lasciò indifferenti tanti giovani sen-
sibili ai temi della controcultura - è stata più sottovaluta-
ta o decisamente disprezzata dalla critica ufficiale. ed è
anche non abbastanza documentata. Prima di Om Shanti
Om nessun album testimoniava  per esempio  di questa
formazione ridotta all'osso che rappresenta uno dei mo-
menti di più drastico allontanamento di Cherry - al di là
di qualche intervento alla pocket trumpet -  dalla logica
e dall'estetica del jazz, a favore di un radicale, visiona-
rio, sognante neofolclore universalistico, multicultura-
le che anticipa prepotentemente la world music dei de-
cenni successivi: e poca della world music che ha poi 
praticato l'incontro di culture diverse lo ha fatto con
la poesia e la limpidezza  che rendono questa musica -
che rappresenta meravigliosamente un'epoca - ancora
così attuale.

Om Shanti Om (Vinyl, LP, Album) copertina d'album

Lucianone             

mercoledì 10 luglio 2019

Cultura - Il personaggio / James Ellroy, scrittore americano

10 luglio '19 - mercoledì           visione post - 18


Hay-On-Wye  (Galles)
Pare un manichino molleggiato e fuorilegge, 
con la pelle, i pantaloni e la camicia fiorta di
un unico beige, e gli occhiali tondi  e intellet-
tuali. L'intervistatore Mark Lawson suda, be-
ve acqua. L'ospite americano  sale  sul palco
come una rock-star, domina l'affetto del pub-
blico con le sue braccia lunghe e secche ta-
gliandolo come un'onda, allarga le gambe e
inizia a leggere le prime pagine di This Storm,
il suo prossimo martellante romanzo già usci-
to in America e Inghilterra, in Italia arriverà
nella primavera del 2020 per Einaudi (ora in
libreria c'è Cronaca nera).  Ma intanto This
Storm, "la tempesta", non di Shakespeare
ma dell'indomabile 71enne James Ellroy,
seguito del precedente Perfidia per la serie 
The Second Los Angeles Quartet, è arriva-
ta qui in Galles, a Hay-On-Wye, quella del
celebre Hay Festival , "capitale del libro".
Ellroy è in gran forma ed essendo "cane in-
diavolato" (autodefinizione), ringhia dalla
sedia, quasi morde Lawson e professa che 
Chandler - cui viene spesso paragonato - è
"lo scrittore più sopravvalutato del canone
americano".     Il suo Philip Marlowe "era
soltanto il personaggio  che  voleva essere.
Mentre Dashiell Hammett, lui sì che mi pia-
ce: Sam Spade era colui che l'autore aveva 
paura di essere. Oggi adoro Daniel Silva per
la sua scrittura intelligente e lo sconosciuto
Kidnap di George Waller del 1961. E' una
bomba, leggetelo".  Risate e sdegno in sala,
che risalgono a quando l'intervistatore gli
rinfaccia un linguaggio vagamente "antise-
mita" nel nuovo romanzo, come il nome "di
Roosevelt ebraicizzato", ed Ellroy risponde
con un oscillante pugno onanista e versi be-
stiali. Poi argomenta: "Nessuna censura. Vorrà
dire qualcosa. Il linguaggio di This Storm è raz-
ziale perchè è legato a quell'epoca particolare,
agli anni Quaranta in Stati Uniti e Messico.
Che vi piaccia o meno io vivo nel passato. La
mia missione è darvi la segreta infrastruura
umana dei grandi eventi".  Quindi non permet-
tetevi di chiedere a Ellroy commenti sulla con-
temporaneità, sul futuro o peggio su Donald
Trump: "Per me la storia americana finisce
nel 1972 quando muore J. Edgar Hoover (il
primo direttore dell'Fbi, ndr)  e  scoppia  lo
scandalo Watergate". Ma perchè?  "Dopo
quei due eventi ho perso tutta la mia curio-
sità intellettuale nel presente".  E quindi il
densissimo e travolgente This Storm torna
al passato, si riallaccia al precedente  Perfi-
dia, al 7 dicembre 1941 di Pearl Harbour,
ai giapponesi internati in California, a po-
liziotti corrotti, ai nazisti americani, alla
criminale Los Angeles, a un caro vecchio
inferno "che si concluderà con l'ultimo ca-
pitolo del Quartetto ambientato nel 1945.

Risultati immagini per james ellroy"
James Ellroy

"Voi volete risucchiarmi  nella  vostra men-
talità del presente, ma non ci riuscirete mai. 
Non me ne frega niente: non guardo la tv o
le news, non ho un cellulare, possiedo solo
un fax. Posso solo dirvi che sono contro i to-
talitarismi, i fascismi e i comunismi, ma non
ci vuole tanto a capire dai miei libri  che so-
no dalla parte della libertà".  C'è Mussolini,
però, come epigrafe di This Storm: "Solo il 
sangue muove le ruote della Storia". Perchè, 
gli chiediamo nel backstage?    "Perchè l'ho 
sempre  considerato  una  figura  ambigua, 
dunque andava bene per i personaggi sfug-
genti del mio romnnzo". Ma è stato un  fa-
scista vero: "Vero, ma è sempre stato sotto-
messo a Hitler".  E perchè questo amore per 
la Storia?  Ellroy si confessa.  Primo: "Nel  
1956", un paio di anni prima che venisse stu-
prata e uccisa da ignoti, "chiedo a mia ma-
dre", cui poi dedicherà Dalia nera, "Mam-
ma, ma la Seconda guerra mondiale è anco-
ra in corso? Lei: "No, figliolo, è finita nel
1945". Ma io non le ho mai creduto. Senti-
vo che quella guerra era ancora viva. e po-
tentissima nella coscienza americana. Que-
sto è stato fondamentale per la mia imma-
ginazione. Poi quando i miei stavano per
separarsi, avevo circa 8 anni, nel nostro
appartamento a West Hollywood spesso
mi nascondevo in un armadio pieno di
vecchie riviste, articoli  sulla  Seconda 
guerra mondiale, libri sulla Guerra ci-
vile spagnola, e così la passione per la 
Storia mi è entrata dentro e mi ha in-
cendiato il cervello.  Poi la morte di mia
madre mi ha segnato parecchio, così hp
iniziato ad andare in biblioteca per die-
ci ore al giorno. Pian piano, ho scoperto
che nessuno aveva ancora scritto i libri
che volevo creare io". 
A Ellroy non piacciono i film tratti dai
suoi romanzi: L.A: Confidential, per e-
sempio, due Oscar nel 1997, "è profon-
do quanto una tortilla, non ha il senso 
drammatico dell'azione. Ma porta sol-
di e va benissimo: il denaro  è  l'unico 
regalo che non torna mai ibdietro".
Ma come bascono i suoi libri? "Ogni
mattina mi alzo con una voglia matta
di scrivere: adoro raccontare storie.
Per un romanzo preparo uno schema 
per dieci mesi, in cui faccio anche mol-
ta ricerca storica, la quale però è solo
un punto di partenza: poi invento io.
E ho una memoria fantastica: la scrit-
tura effettiva impiega circa quattro 
mesi.  Scrivo  a  mano, mai usato un 
computer per niente".
Lo stile: "Amo la narrativa compatta, 
lo slang americano, le allitterazioni,  il
suomo puro dello yiddish, il ghergo po-
liziesco, la concisione estrema. L.A. Con-
fidential, Dalla nera e Sei pezzi da mille
con i pazzi anni Sessanta hanno forgia-
to il mio stile in maniera decisiva. Sus-
cessivamente, ho svoltato  verso  una 

scrittura volontariamente più esplica-
tiva,, per avere più impatto emotivo, 
come Il sangue è randagio, Perfidia e
quest'ultimo This Storm.  Aggiungo e
tolgo parole in continuazione, fino a
quando non ho raggiunto la perfezio-
ne. Il ritmo viene rilegendo tutto sul-
le labbra ma anche ascoltando la grande
musica classica - adoro Beethoven, Wag- 
ner, Mahler e Bruckner - e un pò di jazz
e bebop".  "Perchè sono americano, mi 
piace tutto grande", ripete, "parafrasan-
do l'incipit di Saul Bellow e del suo gran-
de romanzo americano Le avventure di
Augie March:  "Sono un americano na-
tivo di Los Angeles - Los Angeles, quella
città fottuta - e nella vita me la sbrigo cvo-
me ho imparato a sbrigarmela da me: in
stile libero".

Lucianone

martedì 31 luglio 2018

ARTE - Pablo Picasso e Guernica: nascita e anatomia di un capolavoro

31 luglio '18                                 visione post - 82

(da il venerdì di Repubblica - 31 marzo '17 - 
Marco Cicala / Madrid)
Una strage di civili. Un genio in crisi
che nello shock ritrova l'ispirazione., 
Un mese di lavoro folle. Le polemiche,
la guerra, la "fuga" negli Usa, il ritorno
in Europa.  Viaggio in un dipinto che 80
anni fa cambiava la storia dell'arte, ma
che all'inizio fu stroncato persino da si-
nistra. Una tela ancora avvolta da leg-
gende e segreti. A cominciare da quello
di una misteriosa scatoletta con dentro
una lacrima rossa.

COPPIE, SCOLARESCHE, GRUPPI VACANZA,
o gli ormai ineludibili hipster con barbetta e occhiali
spessi: al Museo Reina Sofia c'è sempre un mucchio
di gente più o meno venerante accampata davanti a
Guernica,  Ma viene da chiedersi se oggi, in tempi di
massacri banalizzati, la strage che ispirò quel dipin-
to in ogni senso enorme  avrebbe  lo stesso  impatto
emotivo di allora, cioè ottant'anni fa.
Nel pomeriggio  del 26 aprile 1937, col grazioso con-
tributo dell'aviazione mussoliniana, gli Heinkel e gli
Junkers di Hitler sganciarono sull'antica capitale ba-
sca di Guernica  fra trenta  e  quaranta tonnellate di
bombe, incendiarie o a scheggia. Era un lunedì, gior-
no di mercato. Gli abitanti stavano riemergendo dal-
la siesta quando insieme agli animali - asini, maiali,
galline - si ritrovarono ingoiati da un tornado di fuoco.
Dopo tre ore di martellamento dal cielo, della città non
rimaneva che la carcassa.  I morti furono 1.654, i feriti
quasi novecento. Benchè ospitasse qualche impianto 
per la fabbricazione di armamenti. Guernica - in basco
Gernika - non rappresentava uno snodo strategico. 
Arrostendo i civili, l'incursione non aveva altro obietti-
vo che quello terroristico  di stroncare  il morale tra le
forze repubblicane.  Per quanto le grandi potenze aves-
sero già testato  certi  metodi  nei territori coloniali, si
trattava del primo bombardamento  a tappeto sul suo-
lo europeo.  Più tardi, sconfessando le fanfaluche fran-
chiste che addossavano l'ecatombe ai "rossi", Herman
Gòering avrebbe definito Guernica un "laboratorio". 
Era la prova su strada dei nubifragi di bombe che si
sarebbero abbattuti su Varsavia, Rotterdam, Coven-
try, ma nche sulle città tedesche, fino al gran finale
di Hiroshima e Nagasaki.
Pablo Picasso, che all'epoca aveva 55 anni e risiedeva
a Parigi da una trentina, apprese dell'inferno di Guer-
nica mentre sedeva ai tavolini del Cafè Flore. Leggen-
done i dettagliati resoconti sulla Stampa, ma soprat-
tutto ma soprattutto vedendone le foto, la carneficina
si incise in lui come un trauma. Per uno di quei para-
dossi di cui la storia dell'arte straripa, la voragine di 
umanità e di vita  che  la ferocia  nazifascista  aveva 
scavato nel cuore dei Paesi Baschi colmò improvvisa-
mente il vuoto creativo nel quale Picasso si dibatteva
da mesi.  Le autorità repubblicane gli avevano com-
missionato un grande murale  da esporre  nel padi-
glione spagnolo dell'Expo parigina che si sarebbe
inaugurata alla fine di giugno. Ma la data di con-
segna si avvicinava e l'ispirazione di Picasso - chia-
miamola così - era in panne. Oltre che sul suo con-
clamato genio gli antifranchisti puntavano sul suo
prestigio.  Anche  se  a partire  dal secondo Dopo-
guerra lo sarebbe diventato molto di più, il mala-
gueno era già un artista leggendario. Peccato che
non avesse mai accettato di lavorare su ordinazio-
ne e che fino a quel momento le sue posizioni po-
litiche non si fossero mai arrischiate  oltre un ge-
nerico anarchismo bohèmien. In linea con l'alte-
roro disimpegno del verbo modernista, il Picasso
del cubismo proclamava che il fine dell'arte non
è "bè il bene nè il male, nè l'utile nè l'inutile" e
che la pittura "è dipingere e nient'altro".  Ma
dall'epoca di quelle sentenze la temperie cultu-
rale europea era molto cambiata.  E allo scop-
pio della guerra civile  l'atteggiamento  di  Pi-
casso muta: lo sdegno verso il golpe fascista si
fonde con la nostalgia della Spagna che è affio-
rata in lui negli ultimi anni parigini. D'impul-
so, con le bombe che a Madrid minacciano or-
mai anche il museo, Picasso acconsente a veni-
re nominato direttore del Prado.  Un incarico
che  ricoprirà  in  forma  virtuale, senza  mai 
muoversi dalla Francia. E tuttavia non siamo 
ancora a un pieno engagement.   Sebbene ab-
bia deciso da che parte schierarsi, P. Picasso
continua ad avvitarsi in tortuose ruminazio-
ni, evita di esporsi politicamente, al punto
che la propaganda nemica mette in giro la 
voce che simpatizzi segretamente per i na-
zionalisti.

E' questo l'uomo sotto pressione che tra indugi e ri-
luttanze finisce per accettare anche allettato dalla 
gratificazione economica, circa duecentomila fran-
chi - la commessa governativa  per l'Esposizione
Internazionale.  Picasso accetta, però per mesi cin-
cischia, esita, non sa da che parte cominciare. Nel
gennaio del '37 realizza una serie di acqueforti in-
titolate Sogno e menzogna di Franco (ma il gioco
di parole si coglie solo in francese: Songe et men-
songe de Franco).  A metà tra le strisce dei moder-
ni comics e le aleluyas, le incisioni popolari della
tradizione religiosa barocca, sono immagini grot-
tesche che sbeffeggiano la figura e l'antropiologia
guerriera del futuro Caudillo.

Pariodo "Blu" -
ll piacere di raccontare


CONTINUA...
to be continued...

domenica 15 luglio 2018

Scrittori - James Joyce: da 'Ulisse' a 'Finnegans Wake', viaggio al termine del '900

: 15 luglio '18 - domenica              visione post - 92


(di Stefano Bartezzaghi - da il venerdì di Repubblica, 13 gennaio '17)  

L'ultima follia di Joyce -
Finnegans Wake fu scritto dal genio irlandese poco
prima di morire. ......

CON
         l'Ulisse  aveva sconvolto  il romanzo, ma con
Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema
dalla lingua babelica dove i miti si confondono con
le canzoni da pub.
L'ammiratore Umberto Eco lo definì "terrificante".
Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani
ci sono riusciti.  Qui spieghiamo  come hanno af-
frontato un capolavoro venerato dalle avanguardie
ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
"Riverrun", "Meandertale", "Chaosmos " sono tre
fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vo-
cabolario) del romanzo di cui l'autore stesso pensava;
"Forse è una follia. Si potrà  giudicare  solo fra un se-
colo".  Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono 
passati meno di ottanta, e l'opera estrema di James 
Joyce può continuare a sembrare una congettura di
Jorge Luis Borges. Isinvece il Finnegans Wake non so-
lo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italia-
no.  Di Joyce è opera estrema non solo perchè ultima
(è uscito nel 1939), diciassette anni dopo l'Ulysses, e
due anni prima della morte dell'autore.    Lo spiegò
Umberto Eco, nel 1962: "Pareva che Ulysses avesse
sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: 
Finnegans Wake supera questo limite oltre i confi-
ni del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio
avesse dato prova di tutte le sue possibilità Finnegans
Wake porta il linguaggio  oltre ogni confine di duttilità
e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse
il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos:
Finnegans Wake costituisce il più terrificante documen-
to di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si
sia mai avuta notizia". 
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significati-
vamente intitolato  "La guerra contro i clichè"   una
prefazione all'Ulysses, e vi ha così riassunto le quat-
tro tappe fondamentali della produzione joyciana: 
" Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino,  
il più o meno comprensibile Ritratto dell'artista da
giovane, poi l'Ulisse, prima che Joyce si prepari per
per  quell'immolazione  di ostilità, di sterminio  del
lettore  che  è Finnegans Wake, dove  ogni  parola è 
un pun multilingue".   E' il gioco di parole, quindi, 
la "terrificante" (Eco) arma  con cui  si compie  lo
"sterminio del lettore" (Amis).   Nel pun le parole 
possono incastrarsi l'una nell'altra, aprendo nuo-
ve dimensioni di significato:  i gemelli "siamesi" 
sono "soamheis" (so-am-he-is, così come io sono,
egli èl; "Chaosmos" è il caos che non si oppone
ma si interpone al cosmo; "riverrun" (prima e 
ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo
perchè la fine si salda con l'inizio)  è  un'unione 
di "fiume" e "scorrimento" (ma può essere mol-
te altre cose); "Meandertale" è una sorta di scia-
rada fra il "meandro"  e  il "racconto (tale) che
finisce per produrre un'entità vicina a "Neander-
thal", quindi all'uomo primordiale e ai suoi istin.
ti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il tito-
lo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia
irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui
ritornello dice "Vedi che avevo ragione? / Alla
veglia di Finnegan ci si diverte da matti!". Per
Joyce agglomerare parole o, al contrario, disag-
gregarle in atomi entropici di significato era an-
che  un divertimento  personale: non a caso gli
capitava di chiamarlo "joycity", gioiosità joy-
ciana.
Al proprio "meandertale", oscuro labirinto e puzzle 
narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti  e  ideal-
mente insonni.  Dei traduttori  non ha parlato  (per 
quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione
italiana di una sezione), ma il testo  li postula onni-
scienti e invulnerabili.  Dopo qualche saggio di tra-
duzione italiana assai parziale da parte di scrittori
intrepidi  come Gianni Celati  e  Rodolfo Wilcock
(oltre allo stesso Joyce), a decidere  di  affrontare
non l'Ottomila  di uno o due capitoli  ma l'intero
Himalaya del libro completo  è stato un tradutto-
re bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell'in-
credulità generale pubblicò il primo volume nel
192, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due
terzi dell'opera. Il suo testimone è stato raccolto
da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone  di cui  ora 
esce la traduzione del penultimo tratto di Finne-
gans Wake Libro Terzo, capitoli 1 e 2, Monda-
dori, pp. 420, euro 24), corredato di diversi ap-
poati, oltre che dall'imprenscindibile testo ori-
ginale a fronte. 




Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che
il romanzo  "si traduce da solo",  poichè è scritto
in una lingua babelica, in cui l'inglese si confron-
ta con apporti  di ogni altra lingua conosciuta  o
raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l'ita-
liano ma anche il dialetto triestino: chissà quan-
ti non-italiani leggendo "riceypeasy" penseran-
no ai "risi e bisi" qui evocati consapevolmente
da Joyce).
La storia  di questo libro inimmaginabile  era
cominciata nel 1922, un anno dopo l'uscita di
Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere
a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva
con il disegno di un quadratino; quando ne par-
lava, lo chiamava work in progress, il lavoro in
corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per
chi avesse indovinato il titolo definitivo ( il pre-
mio  fu aggiudicato  dieci  anni dopo, un anno
prima dell'uscita del romanzo. -    La canzone
Finneggan's Wake parla della veglia funebre 
per un ubriacone, durante la quale  gli amici
bevono e litigano, fanno cadere un goccio di 
whisky sul cadavere, che si ridesta ("wake"
come nome significa "veglia" ma come verbo
sta per "svegliarsi".  Joyce trasformò "Finne-
gan's" in "Finnegans", e la veglia di Finnegan
diventò "la veglia dei Finnegan" o "i Finnega-
ns si svegliano". Nè si può trascurare la circo-
stanza per cui Finn è un gigante della mitolo-
gia irlandese, nel mito di fondazione della cit-
tà di Dublino, e sempre per assonanza e pun
"Finnegan" può diventare "Finn again", anco-
ra Finn, in riscossa dello spirito irlandese. 
Come se non bastasse c'è il latino, dove "negans"
è participio presente di negare  e  quindi "Fin ne-
gans wake" è una veglia, o un risveglio, che nega
la fine.
Il fatto è che Joyce  era rimasto  impressionato,
letterariamente  se  non  filosoficamente, dalla 
Scienza Nuova di Giovan Nattista Vico, con la
dottrina dei corsi e ricorsi  e la sequenza delle
ere degli Dei, degli Eroi e degli Uomini.  Volle
narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo
però nella forma stessa del suo romanzo, non
una quadratura del cerchio, ma una circola-
zione del quadrato, diceva:  il quadrato  sta
per il susseguirsi di nascita, crescita, morte,
rinascita. A capirlo prima di tutti fu il giova-
ne Samuel Beckett che di Joyce era stato an-
che collaboratore stretto, e quando del Work
in Progress  non  si  conoscevano  che  pochi
tratti ne parlò così: "Qui la forma è il conte-
nuto, il contenuto è la forma.  Si protesterà
che questa roba non è scritta in inglese. Non
è affatto scritta. Non è fatta per esser letta,
o almeno non solo per essere letta. Bisogna
guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce 
non è su qualcosa: è quel qualcosa".

Risultati immagini per joyce - finnegan wakes

Nel contenuto e nelle forme espressive della
narrazione fra l'Ulysses e Finnegand Wake
avviene il passaggio dal giorno alla notte.
Là c'era una giornata nella vita di un everyman
Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo,
l'oste H. C. Earwicker. Nelle forme di un'allego-
ria letteraria l'Ulisse-Boom aveva il suo Telema-
co-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontra-
va sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di
Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo,
storico, geografico, mitologico)  non  scorrono
più parallele al testo ma si fondono fra loro se-
condo le condensazioni tipiche del lavoro oniri-
co.  Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno an-
che per Here Comes Everybody (Qui arriva ognu-
no) e per molte altre soluzioni dell'acronimo; la
moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna
il fiume dublinese Liffey; corrispondenze nume-
rologiche trasfigurano i dodici clienti dell'osteria
di H. C. E. negli apostoli  o nelle ore dell'orolo-
gio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle
identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua me-
desima diventa un dispositivo di condensazione, in cui
radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative  convi-
vono nella stessa parola. Se l'Ulysses rompeva la sin-
tassi dell'inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake
non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una trom-
ba d'aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il 
consulente che scrive alla casa editrice: "Per piacere,
dite alla direzione di stare più attenta quando manda
i libri in lettura. Io sono un lettore d'inglese e mi avete
mandato un libro in qualche diavolo di altra lingua.
Restituisco il volume in pacco a parte.
 
LO scrittore Michel Butor ha detto: "Se noi vogliamo
leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo
prendere molte parole in modo diverso da quello in cui
sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e
dei loro significati possibili". Ogni lettore fa scelte pro-
prie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo:"Fin-
negans Wake è così per ciascuno uno strumento di cono-
scenza intima".
here Comes Everybody, appunto.  Forse è significativo che
tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake
si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Exo.
L'Everybody dublinese, dall'alto del suo estremo gioco let-
terario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria
allora convergono: la storia, l'ostilità,  l'ospitalità,  l'isteria  di
tutti. Se fra vent'anni decideremo che si trattò di follia, già og-
gi sappiamo che lì c'era del mitico.




CONTINUA...
to be continued...

lunedì 9 aprile 2018

Cultura - La poetessa dei Navigli: Alda Merini

                                                             visione post - 89

(da la Repubblica - 21 marzo '18 - di Simone Mosca)

ALDA MERINI: una tempesta 
di primavera
Aveva 16 anni, quindi doveva essere il 1947. A chi
ne conosceva l'orgoglio da grande seduttrice, con
un sorriso satiresco raccontava che la primavera
di quell'anno ebbe una breve fuga d'amore, forse
il primo vero batticuore.  Durò  qualche  giorno,
scappò concupita da un uomo  "brutto, simpati- 
co ma molto imtelligente", di 11 anni più grande.
Lui era Giorgio Manganelli, lei Alda Merini, poe-
tessa che  ann i dopo  il breve firt, al Manganelli
famoso scrittore dedicò una poesia. "I tuoi libri
sono là, mio caro amico/hanno distanze che so 
solo io". Si puù leggere il verso in una teca pie-
na di dattiloscritti autografi.  In  un'altra  che
raccoglie prime edizioni, è datata 1999  Vuoto 
d'amore , Einaudi. Reca in copertina versi più 
noti che servono a dare il senso alla giornata. 
"Sono nata il ventuno di primavera/ma non
sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse
scatenar tempesta". La libreria Pontremoli, che
Merini frequentò  nella storica sede  sui Navigli
e che da un anno e mezzo si è trasferita in zona
Bocconi, dedica una mostra  alla  poetessa  nel
giorno in cui festeggere bbe l'87esimo complean
no.  L'inizio di primavera, la giornata mondiale 
della poesia. La mostra si intitola "Letto divino",
come uno dei di micro libri firmati per le Edizio-
ni Pulcinoelefante. E' un'opera da un solo afori-
sma: "Il mio letto è una zattera che corre verso
il divino".  I volumetti stampati con l'amico Ca-
siraghy sono una delle sezioni della mostra. Al-
le pareti sono sistemate 40 fotografie di Giusep-
pe Nicoloro che ha seguito Merini a partire da-
gli anni '80. Vanno dalle consuete pose contur-
banti ambientate sul letto agli studi Mediaset
dove sta per andare in onda con Chiambretti.
In mezzo epifanie.  Come  un'indecifrabile se-
rata a teatro dove, pur di scortarla, a braccet-
to sgomitano Roberto Vecchioni, Gianfranco
Ravasi e Cesare Romiti mentre lei sfodera un
ghigno luciferino da domatrice. Ma il suo ge- 
nio naturale aveva davvero il potere di amma-
liare, un dono che negli ultimi anni purtroppo
si rivelava soltanto a voce.  Non  scriveva  
di persona, doveva dettare,  e  allora  cercava
in fretta al telefono qualcuno cui confidare la
poesia che le sgorgava al momento.  La  dote 
più preziosa di rarità, alla Pontremoli, è  an-
che per questa ragione la raccolta di scritti,
a partire da quelli giovanili. Quando, notata
notata dal critico  Giacinto Spagmoletti  che 
la inserisce in un'Antologia della Poesia ita-
liana contemporanea nel '50, oltre a Manga-
nelli   finisce  a dare  del tu a Montale, e so-
prattutto a Quasimodo.  Frequentato per 3
anni dal '50, è del 53 l'Odissea  tradotta da
Quasimodo che la regala  alla giovane col-
lega. La dedica è "in amicizia". Merini in-
soddisfatta due pagine dopo risponde con
una ben più esplicita frase rivolta al vene-
rato maestro. "Vorrei che il tuo sguardo...".
Molte sono le lettere spedite a Vanni Schei- 
willer, editore della raccolta d'esordio  La
presenza di Orfeo, '53, e poi di tante altre.
Nelle quali non entrò un numero conside-
revole di opere, come si vede dai "No" con
 cui Scheiwiller scartò  decine di proposte.
Fogli che si possono considerare inediti.
Sempre il '53 è l'anno in cui Merini sposò
il primo marito  Ettore Carniti, panettiere,
iniziando nel frattempo a scriversi, ma per
ragioni professionali, con quello  che diven-
terà il secondo, nel 1984, il medico e poeta
tarantino Michele Pierri. Due passaggi al-
l'altare, tre figli dal primo matrimonio. In
mezzo gli abissi intermittenti dei ricoveri. 
Una vicenda che si ritrova nelle fotocopie 
che Merini, negli anni più difficili, orfana
di editori. montava  in  forma  di libro   e 
vendeva a mano. O nei versi composti nei
periodi  che trascorreva  a casa, in vacan-
za dal manicomio dove sapeva l'avrebbero
rimandata: "Il mio dottore sa che piango/
ma non se n'è disperato".


Lucianone